
Domenica 3 settembre, XXII del tempo ordinario
(Ger 20,7-9; Rm 12,1-2; Mt 16,21-27)
Gesù spiega ai discepoli che dovrà andare a Gerusalemme, essere processato e giustiziato, con molte sofferenze, per poi risorgere il terzo giorno. Pietro è scandalizzato da ciò. Il nome “Pietro” gli è stato appena dato, pochi minuti prima Gesù ha confermato di essere il Cristo, il Messia l’Unto del Signore, e ha nominato lui “pietra” su cui edificherà la sua chiesa. E dopo tale proclama, il Maestro si mette a dire che morirà? Pietro lo prende in disparte e quasi lo sgrida: “Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai.” Dimostra, ancora una volta, di non aver capito.
Gesù ha appena detto che risorgerà dai morti, che dopo la morte ci sarà, per lui e per ogni uomo, una nuova ed eterna vita, che la morte non deve essere la fine di tutto. Ma nella sua paura, Pietro si è fermato alla frase prima. La morte e la sofferenza sono spaventose, forse oggi ancora più che allora, adesso che fame, malattie e guerre sono concetti alieni e distanti, almeno nel nostro opulento mondo occidentale, al punto che il fatto stesso di morire spesso scandalizza ed è considerato inconcepibile. Ma questa paura può essere sconfitta, se solo si accoglie la speranza che Gesù ha portato, prima con la propria predicazione e poi con i suoi stessi gesti: dalla morte si può risorgere.
Poiché Pietro non ha compreso ciò, ora è Gesù a sgridarlo, e molto aspramente, con un tono diverso dalla solita bonarietà con cui corregge i discepoli: “Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!” L’errore di Pietro è grave, ma non è l’umana premura per il proprio maestro. È il “Dio non voglia”, la pretesa di dire a Dio ciò che deve fare invece di affidarsi a Lui. Una diffidenza e un’arroganza che, seppur nell’innocenza, lo rendono “nemico” di Dio, “Satana”. Gesù prosegue rivolgendosi a tutti i discepoli: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua.”
Oggi, “prendere la propria croce” è una frase proverbiale, interpretabile come “farsi carico delle difficoltà della vita”, ma in questo passo la metafora è un’altra, e non è neanche puramente una metafora. La croce era un noto strumento di tortura ed esecuzione, parte del macabro rituale che (coerentemente con lo stile, affinato da secoli di crudeltà, dei Romani) consisteva nel costringere il condannato a farsi carico dello strumento stesso, conducendolo lui, sulle proprie spalle, al luogo dove sarebbe stato usato per giustiziarlo, in un’ulteriore tortura sia fisica che psicologica.
Quello che Gesù sta dicendo ai discepoli, è che seguirlo inevitabilmente li porterà alla morte, e a una morte atroce. E così accadrà. Per molti secoli i cristiani saranno perseguitati e uccisi in ogni angolo dell’Impero e oltre, e se ad un certo punto l’autorità romana smetterà di perseguitarli, continueranno a farlo altre autorità, altre leggi, altri popoli, in una mattanza che continua ancora oggi, spesso nell’indifferenza più totale. Ma ancora una volta, il discorso di Gesù non si conclude su una nota deprimente, ma continua con un annuncio di speranza: “Chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà.” Chi teme per ciò che ha, deve rassegnarsi in ogni caso un giorno a perdere tutto, perché la morte è inevitabile.
Ma sebbene nessuno sia immortale, per chi ha già rinunciato a tutto per quell’Uno che è risorto dai morti, la morte è, come per Lui, solo un passaggio verso una nuova vita.
Pierantonio e Davide Furfori