Domenica 25 giugno, XII del tempo ordinario
(Ger 20,10-13; Rm 5,12-15; Mt 10,26-33)
Gesù ha chiamato dodici tra i suoi discepoli, e ha dato loro la missione di diffondere i suoi insegnamenti, una volta che lui sarà tornato al Padre. Nel Vangelo di Matteo questo è organizzato come un discorso, il secondo, dopo quello della Montagna: “Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze”. La missione dei dodici, degli “apostoli”, i “messaggeri” di Gesù, è la stessa di ogni cristiano, ancora oggi. E non è mai stato un compito comodo, i discepoli ne sono consapevoli più di noi: di tutti loro, solo uno, Giovanni, non morirà di morte violenta proprio in conseguenza di essere stato testimone della fede, “martire”.
Ancora oggi in ogni parte del mondo i Cristiani vengono uccisi per la loro fede, spesso nel silenzio indifferente dei media. Ma il Maestro offre a loro, e a noi oggi, parole di coraggio e di conforto: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima”. In queste poche righe di Vangelo, Gesù menziona la paura ben quattro volte: paura degli uomini; paura di chi uccide il corpo; paura di non valere abbastanza; paura di perire nella eterna Geenna. Le prime tre citazioni sono altrettante esortazioni al coraggio; la quarta è invece un avvertimento contro chi pensa a salvarsi la pelle, ma trascura l’anima. In questo momento il Signore godeva di grande stima presso il popolo: tutti lo cercavano per sentirlo parlare o per farsi curare. Ma tutto sarebbe cambiato più avanti. Il primo evangelista sottolinea la durezza delle Sue Parole rivolte ai primi missionari: esige un’adesione totale alla sua persona: la comunione con Lui dev’essere assoluta. Ma non chiede di amare la croce per se stessa. La proposta, forte e chiara, è quella di seguirLo senza opporre condizioni, anche a costo della vita. Del resto, la perdita della vita terrena ha come contropartita l’ingresso in una vita eterna.
Anche nella nostra società, così lontana dal dramma del martirio, si è restii a testimoniare le opere di Cristo, non solo nei gesti ma anche nelle parole, a volte perché lo si considera ormai inutile, a volte per un’interiorizzata convinzione che parlare di Dio sia “poco elegante” o “controproducente”, preferendo limitarsi a compiere opere di bene, lasciando la “fastidiosa” religione nella “sfera personale di ciascuno”. Ma così non si compie quanto Gesù ha chiesto da noi. Quando la Parola ricorda loro che il compito di aiutare il prossimo è di tutti, perché per tutti è venuto Gesù, non solo per qualcuno, i nostri contemporanei reagiscono con rabbia e stizza, preferendo che i Cristiani fossero soltanto coloro che “risolvono i problemi”, che aiutano i malati, che assistono gli anziani, che si occupano dei poveri, e che permettono loro di lavarsene le mani.
Ma i Cristiani non possono scindere i gesti di carità dalla testimonianza evangelica, che non significa imporsi come guardiani della pubblica morale e ergersi a giusti giudici della società, ma ricordare al mondo, ogni giorno, che Dio si è fatto uomo e si è sacrificato per i peccati di ciascuno di noi.
Pierantonio e Davide Furfori