Porte aperte a una famiglia di Homs
Questa è la storia di due vite tra loro lontane che si incontrano. Da una parte una famiglia giovane con tre bambini fuggiti dalla Siria con ancora negli occhi guerra, distruzione, morte. Dall’altra una parrocchia di periferia, nord Italia, per l’80% frequentata da persone anziane e con un “cuore grande”. Due storie, due realtà che grazie ai “corridoi umanitari” si sono incontrate e ora hanno davanti a loro un futuro comune tutto da scrivere e da inventare.
Succede a Padova dove la parrocchia “Spirito Santo” ha deciso di accogliere una famiglia siriana. Sono arrivati lunedì 27 febbraio a Fiumicino con un volo dal Libano grazie all’iniziativa ideata e sostenuta dalla Comunità di Sant’Egidio, dalla Federazione delle Chiese evangeliche in Italia e dalla Chiesa valdese. I Corridoi umanitari compiono un anno e grazie a un accordo siglato con i ministeri degli Esteri e dell’Interno hanno consentito fino ad oggi a 700 profughi di raggiungere il nostro Paese in tutta sicurezza, evitando di rischiare la vita lungo le attraversate in mare o di cadere nelle mani dei trafficanti di vite umane.
Tra i nuovi arrivi c’è la famiglia di Ayman e Rawia e i loro tre bambini: Nour, Nagham e Natali. Arrivano da Homs. Hanno lasciato la città un anno fa – racconta Ayman – e quello che si ricordano è solo “distruzione totale”. Anche la loro casa “non c’è più, rasa completamente al suolo”. È stata dunque la paura e la disperazione a spingerli ad affrontare un viaggio verso l’ignoto. Ayman racconta di essere stato pronto a tutto. Ha addirittura pensato di imbarcare la sua famiglia su un barcone ma ci ha ripensato: troppo pericoloso per bimbi così piccoli. Poi l’incontro con la Comunità di Sant’Egidio, tramite alcuni religiosi in Libano. E la partenza su un volo aereo per l’Italia. È qui che la storia di Ayman e Rawia si intreccia con quella di una parrocchia italiana.
Loro un anno fa fuggivano da Homs. La parrocchia padovana di Santo Spirito si interrogava su che cosa la comunità parrocchiale potesse fare per l’emergenza in Siria. “Abbiamo scelto di optare per le persone che giungono in Italia grazie ai corridoi umanitari – racconta don Giancarlo Battistuzzi, il parroco – perché sono persone scelte per le condizioni di estrema vulnerabilità. Abbiamo quindi preso contatto con la Comunità di Sant’Egidio che già lavora nella mia parrocchia con gli anziani e da lì è partito tutto”. Presa la decisione, la parrocchia si è data da fare per preparare l’accoglienza.
Grazie “all’aiuto della Provvidenza”, si è affittato un appartamento vicino alla parrocchia e si è aperto un conto dedicato in maniera che “tutto sia trasparente, che non ci siano confusioni e che chiunque avesse il desiderio di sostenere questa iniziativa, lo possa fare inviando un bonifico”. La preparazione è pensata nei minimi particolari: il parroco racconta di aver individuato le classi dove mandare i bambini a scuola e di aver parlato già con preside e insegnanti stabilendo per un primo momento una frequenza di 4 ore al giorno per non stancarli. Saranno organizzati nel pomeriggio corsi di apprendimento della lingua italiana e, contemporaneamente, anche ai genitori verranno proposti corsi di lingua personalizzati. Anche con gli abitanti che vivono nel quartiere, la parrocchia ha deciso di essere trasparente: ha informato la popolazione del loro arrivo e il parroco ha scritto personalmente una lettera ai condomini.
“La mia parrocchia – conclude don Giancarlo – è frequentata per l’80% da persone anziane. Non è una parrocchia ricca, però ha un cuore grande”. Ma perché lo avete fatto? Il parroco si ferma prima di rispondere. È arrivato personalmente a Fiumicino per portare questa famiglia nella sua città. Non si conoscono. Non riescono ancora a comunicare. Don Giancarlo si è portato dietro un traduttore per favorire durante il viaggio verso “casa” la conoscenza reciproca. Ayman è emozionato. E il parroco pure. Si commuove. Alla fine con un filo di voce, riesce a dire: “Perché l’ho fatto? Perché credo in Dio, e questo è sufficiente”.
M. Chiara Biagioni
Sui migranti scelte, gesti e doveri per la testimonianza cristiana
Ero vicino a una famiglia di rifugiati eritrei – papà, mamma e il piccolo Adonai (che in ebraico significa “Mio Signore”) -, mentre ascoltavo le parole del Papa ai partecipanti al VI Forum internazionale “Migrazioni e pace”, la mattina del 21 febbraio, nella sala Clementina. Il loro sguardo commosso, ma soprattutto la loro storia di migrazione forzata – che li ha prima divisi e poi ricongiunti dopo un viaggio, per l’una, dallo Yemen e, per l’altro, dal deserto del Sahara per poi attraversare il Mediterraneo e sbarcare a Lampedusa – rendevano ancora più reali e concrete le indicazioni di Papa Francesco. Un discorso che è quasi un programma pastorale e sociale, articolato attorno a quattro verbi. Accogliere, anzitutto, che non equivale ad aspettare, attendere i migranti, ma favorire “canali umanitari accessibili e sicuri” e preparare le nostre comunità a un’accoglienza diffusa, personale e familiare. Proteggere, tutelare i migranti dallo sfruttamento, dall’abuso, dalla violenza, con una lotta aperta ai trafficanti di esseri umani, ma anche rafforzando e non indebolendo gli strumenti giuridici di tutela dei migranti forzati. Promuovere, lavorando per lo sviluppo, la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato, perché le migrazioni forzate di oggi nascono dall’impossibilità delle persone di vivere nella loro terra, troppe volte violata da guerre, terrorismo, disastri ambientali anche causati dall’uomo, ingiustizie: non si può indebolire la cooperazione internazionale in questo momento. E infine integrare, un processo biunivoco di mutuo riconoscimento, che nasce dal basso, evita ghettizzazioni, facilita il ricongiungimento familiare e, per la comunità cristiana, è segno di una Chiesa cattolica, universale. Quattro verbi, quattro azioni guidate da tre doveri, che sempre il Magistero sociale – in particolare, cinquant’anni fa, l’enciclica “Populorum progressio” di Paolo VI – ha sottolineato: il dovere di giustizia, di civiltà, di solidarietà. Attorno a questi doveri si costruisce una testimonianza cristiana nella vita sociale che s’impegna a superare le ingiustizie: da quelle di una distribuzione non equa dei beni, a quelle legate allo sfruttamento di persone e territori. I più non possono accontentarsi delle briciole. L’impegno per la giustizia si accompagna ad ogni forma di tutela della dignità della persona umana del migrante, anche in condizione di irregolarità. Giustizia e civiltà camminano se c’è un impegno sempre più allargato di solidarietà, che nasce dall’interesse per l’altro, riconosciuto come fratello, superando paure, pregiudizi, separazioni. E “la cultura dell’incontro”, ancora una volta ribadita da papa Francesco, è l’alfabeto che deve guidare il nostro cammino. Papa Francesco ha concluso il suo discorso affidando alla Chiesa, ancora una volta, i bambini e gli adolescenti in fuga, oltre il 50% di tutti i rifugiati nel mondo e 26.000 tra i migranti sbarcati sulle nostre coste nel 2016. È a partire da loro che la nostra testimonianza cristiana con i migranti è chiamata a coniugare i verbi accogliere, proteggere, promuovere, integrare. Un impegno. Un cammino insieme.
Gian Carlo Perego
direttore generale Fondazione Migrantes arcivescovo eletto di Ferrara-Comacchio