
In Italia c’era il più grosso partito comunista dell’Occidente e i fatti cecoslovacchi della Primavera di Praga suscitarono dibattiti e spaccature con gli “eretici”, che avevano nutrito l’illusione che fosse riformabile il “socialismo reale” delle repubbliche cosiddette democratiche imposte all’Est.
Il dramma seguito alla Primavera di Praga rese chiaro che non era possibile realizzare un socialismo diverso in nessun paese comunista.
Se ne dichiarano consapevoli gli stessi politici che l’avevano sperato. Fidel Castro, che sembrava aver fatto una rivoluzione libertaria a Cuba, disse che la Cecoslovacchia marciava verso il capitalismo e l’imperialismo, quindi la repressione era stata una “amara necessità”.
Nel lontano Vietnam del Nord il partito comunista dichiarò “nobile scopo” difendere il regime socialista dalle forze controrivoluzionarie del nuovo corso a Praga. La Cina di Mao, che aveva rotto con i sovietici, però attacca la “cricca dei rinnegati revisionisti cecoslovacchi”.
Negli Stati Uniti, dove era nata la contestazione degli studenti in protesta contro la politica americana in Vietnam del Sud, i comunisti superstiti alla caccia alle streghe del macarthismo erano pochi e con poca voce, così in Messico.

Guardando all’Europa le reazioni anche dell’estrema sinistra furono contro il nuovo corso cecoslovacco, perché introduceva meccanismi di mercato del capitalismo e rivendicava libertà”borghesi”: una contraddizione con la sua spinta a superare il socialismo come si era realizzato nei paesi dove era al potere. In Francia i comunisti (e la stampa) furono poco attenti alla sorte di Dubček, si preoccuparono soprattutto del grande sciopero di un mese di circa diecimila operai.
In Germania Rudi Dutschke, guida del movimento studentesco europeo, fu l’unico che andò a Praga “per capire”, ma poi condannò tanto l’occupazione militare del paese quanto “la politica della nuova élite tecnocratica”e la contraddizione si ripresenta.
I paesi scandinavi e baltici e quelli anglosassoni non avevano comunisti di qualche rilievo, ma solo moderati laburisti o socialdemocratici, e la condanna dell’intervento armato delle forze del patto di Varsavia fu unanime. Ancor più contrarie erano le dittature di destra antisovietiche della Spagna franchista, del Portogallo sotto Salazar e della Grecia sotto l’oppressione dei colonnelli.
La conclusione a cui sono giunti gli storici è che “La primavera di Praga fu una rivoluzione dimenticata” e lo spiega molto bene Enzo Bettiza in un suo libro del 2007 edito da Mondadori.
Anche a livello di base i comunisti occidentali non furono contro i carri armati entrati a Praga il 21 agosto 1968, poche le simpatie anche in Italia degli ex-partigiani, del sindacato CGIL e la “causa degli studenti praghesi non era la causa degli studenti italiani”.
La regista Liliana Cavani ricorda che alla Mostra del Cinema di Venezia, negli stessi giorni in cui i carri russi invadevano Praga, gli autori e la loro Associazione professionale “non spesero neanche una parola” né inviarono “una cartolina di rammarico”. (m.l.s.)
Il dibattito nel PCI in Italia
Il dissenso sulla repressione armata sovietica della rivolta ungherese del 1956 e degli operai polacchi a Poznan c’era stato, con defezioni di circa 4mila iscritti e di intellettuali quali Calvino, Cantimori, Marchesi, Fenoglio, ma i dirigenti del PCI si erano schierati senza equivoci a favore dei carri armati sovietici.
Dopo Praga invece il partito ebbe uno scossone importante, a cominciare dalla Federazione giovanile, i cui militanti saranno espulsi e molti diverranno dirigenti del movimento studentesco. I dettagli del terremoto nelle due posizioni: quella dell’apparato fedele a Mosca e quella dell’insofferenza dei giovani verso il partito, sono esposti molto bene nel recente ampio saggio dello storico Guido Crainz “Il paese mancato”, Donzelli, 2016.
É la Cecoslovacchia il banco di prova per la possibilità o meno di “vie nazionali” autonome da Mosca, per il rapporto tra democrazia e socialismo. Dopo le prime incertezze, il sostegno del PCI si fa più deciso perché c’è la convinzione che Mosca non interverrà a Praga.
Di fronte all’invasione l’Ufficio politico esprime ”grave dissenso”, ribadito dalla Direzione, Berlinguer ipotizza “l’eventualità di una lotta politica con i compagni sovietici”. Ma da Mosca vengono sorpresa, indignazione, delusione, e minaccia di non dare più rubli al partito, se L’Unità pubblica articoli infuocati di alcuni dirigenti. I conti patrimoniali non tornano e il cedimento ai sovietici, pur con vaghe invocazioni di cautele, si concretizza con la sostanziale accettazione della “normalizzazione “ di Usàk a Praga.
Nel XII Congresso del PCI nel febbraio 1969 il dissenso alla “disciplina di partito” è espresso quasi esclusivamente dagli interventi di Pintor, Rossanda, Aldo Natoli, che a giugno con altri dirigenti tra cui Lucio Magri e Luciana Castellina fanno uscire il primo numero mensile de “Il manifesto”; sarà quotidiano di cooperativa da aprile 1971; è ancora in edicola.
Fu uno scandalo per i dirigenti che uscisse una rivista comunista non controllata dal partito, i redattori furono radiati e estromessi con durezza quelli che erano loro vicini. Nell’autunno “caldo” dei maggiori conflitti sociali della Repubblica il PCI si chiuderà, non senza conseguenze, alle esigenze di democrazia autentica venute dalle esplosioni studentesche e da Praga.