Il Primo maggio è l’occasione per celebrare il lavoro e denunciarne la svalutazione, ma anche per riflettere su come i cambiamenti economici trasformeranno il lavoro di domani
Come sarà il lavoro di domani? Che forme assumerà? Come impatterà sulla società e sulle persone? Nei giorni in cui si celebra la Festa dei Lavoratori, le analisi legate alla congiuntura economica, misurabili nelle variazioni di qualche decimale del tasso di disoccupazione o i provvedimenti per stimolare l’occupazione sono aspetti importanti ma non in grado di spiegare il cambiamento d’epoca a cui il lavoro è sottoposto da almeno un trentennio. In questo lasso di tempo i rapporti di produzione si sono modificati, e con essi gli esiti distributivi.
La terza rivoluzione industriale, quella informatica cominciata negli anni ’70 del secolo scorso, e la globalizzazione economica che proprio da questa ha preso linfa, hanno fatto da sfondo alla migrazione delle imprese verso i luoghi in cui i costi e i diritti del lavoro sono più facilmente comprimibili, mentre l’ingrandirsi di una vorace speculazione finanziaria globale – favorita da una politica ipnotizzata dal liberismo – ha drenato quote consistenti della ricchezza prodotta dai salari ai profitti.
L’allargamento della forbice tra retribuzioni dei top manager e dei loro operai, i salari italiani fermi in termini di potere d’acquisto al 1990 o, sempre nel nostro Paese, il crollo degli investimenti delle imprese e l’aumento delle rendite (finanziarie, immobiliari, nelle concessioni pubbliche) ne sono la manifestazione più evidente.
Le morti in servizio sono la conseguenza indiretta più tragica di questo percorso di svalutazione del lavoro. Seppur svalutato nella remunerazione e nel suo significato sociale, il lavoro non si è estinto, come previde nel 1995 il sociologo americano Jeremy Rifkin in “La fine del lavoro”.
La tesi di fondo del suo best-seller era che il progresso tecnologico avrebbe creato vaste masse di disoccupati e che la minoranza di occupati si sarebbe divisa tra pochi lavoratori ultraqualificati e molti a fare lavori poveri e dequalificati.
Trent’anni dopo le statistiche hanno smentito le tesi di Rifkin. Su scala mondiale ormai 1’80% della popolazione vive di un lavoro subordinato e gerarchico, che coinvolge anche attività in cui un tempo era escluso, come le professioni liberali e i servizi commerciali e amministrativi. Il lavoro non è dunque scomparso ma si è trasformato e si sta ancora trasformando con l’avanzare della quarta rivoluzione industriale, quella della digitalizzazione e dell’intelligenza artificiale.
Di questo processo si conosce una certezza e un’incognita. La certezza è che la quota di ricchezza prodotta che si trasformerà in profitti sarà ancora più alta di quella attuale; l’incognita riguarda le forme in cui si esprimerà il lavoro del futuro: secondo alcuni studi, il 65% dei bambini che oggi frequentano una scuola farà un lavoro che adesso ancora non esiste.
Rispetto al primo punto, interrogarsi su come redistribuire i profitti è un tabù solo per l’asfittico dibattito politico-culturale italiano. All’estero si discute apertamente di “tassare i robot” (la proposta è di Bill Gates, non certo sospettabile di marxismo), di tasse globali sui profitti o di ridurre le ore di lavoro a parità di salario, riprendendo un percorso storico di diminuzione del carico lavorativo sulle persone interrottosi 50 anni fa, in un contesto tecnologico non paragonabile a quello attuale.
Circa il lavoro dei bambini di oggi, c’è chi sostiene che l’incertezza sul futuro è talmente alta che i sistemi scolastici debbano puntare sull’offrire conoscenze e competenze per orientarsi e adattarsi ad un mondo in evoluzione: filosofia e storia, in sintesi, sono materie più utili di informatica o fisica.
Di queste riflessioni non si vede traccia in Italia, dove di fronte alle continue evoluzioni di un mondo in cambiamento si perpetuano percorsi tecnico-professionali piegati al turismo e alle sue incognite, alla manifattura già messa in crisi dalla concorrenza dei paesi emergenti, o all’esaltazione identitaria dei saperi e delle produzioni tradizionali con il liceo del “Made in Italy”. L’ultima domanda aperta sul lavoro di domani riguarda la tenuta dei sistemi previdenziali. Con lavoratori sottoposti a retribuzioni e versamenti contributivi intermittenti come si garantiranno assegni superiori al limite della sussistenza? Con quali risorse? Per ora l’unica ricetta sembra quella di aumentare l’età lavorativa. Probabilmente una strada obbligata, dati anche gli indici demografici, ma che necessita di compensazioni. A partire dalla conciliazione tra tempo di lavoro e tempo libero, che non può essere riservato solo alla vecchiaia, quando forze e salute vengono meno. Il fenomeno delle “grandi dimissioni” durante la pandemia negli Stati Uniti (e con intensità minore anche in Europa) è lì a dimostrare che sempre più persone non sono disposte a mettere il lavoro al centro dell’esistenza, preferendo paradigmi alternativi a quello di produzione e consumo. Saranno questi i temi sempre di più al centro delle future feste del Primo maggio.
(Davide Tondani)