
Il fondatore della moderna economia politica nacque il 5 giugno di 200 anni fa

Strano destino quello di Adam Smith, il filosofo scozzese considerato universalmente il fondatore della moderna economia politica, collocato, suo malgrado, in posizione speciale nel “pantheon” dei padri nobili dell’ideologia liberal-capitalistica.
A 200 anni dalla nascita, avvenuta il 5 giugno 1723, Smith è il caso più evidente di strumentalizzazione intellettuale da parte del mondo degli economisti, culturalmente impoverito dalla prassi di trattare una scienza sociale complessa e trasversale come l’economia politica alla stregua di una scienza esatta che può fare a meno dello studio dell’agire umano. La necessità di suffragare con una qualche base culturale le teorie economiche liberiste ha assegnato al pensiero smithiano, decontestualizzato e mutilato, il ruolo di antesignano dell’homo oeconomicus, un agente economico che con fredda razionalità ed escludendo qualsiasi altro sentimento, compie ogni scelta sulla base del proprio interesse personale.
Adam Smith, figlio di un pastore presbiteriano nella Scozia del Settecento, formatosi nell’ambiente culturale protestante profondamente legato al pensiero di Agostino d’Ippona, studioso di Calvino e del giansenismo, influenzato dall’incontro con gli economisti e illuministi francesi in occasione di un lungo viaggio in Francia, da questo crogiuolo culturale derivò un’idea del mercato fissata in Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776): una visione secondo la quale l’azione degli individui genera ordine sociale e sviluppo economico nonostante essi non agiscano con l’intenzione di generarlo, ma con quella di perseguire il proprio interesse personale.
La tesi smithiana, che dava risposta al grande problema della filosofia politica del tempo, cioè assicurare ordine sociale senza ricorrere all’assolutismo seicentesco o a presupposti teologici, si reggeva sulla celebre asserzione per la quale l’individuo “mira solo al suo proprio guadagno ed è condotto da una mano invisibile (…) a perseguire un fine che non rientra nelle sue intenzioni”. Il concetto era semplice: nessuna necessità di uno Stato che diriga l’economia; per garantire la prosperità della nazione basta, paradossalmente, l’egoismo di ciascuno: “non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse”.
Smith padre del moderno liberismo, dunque? Solo in apparenza. Il suo laissez faire va contestualizzato nell’epoca in cui gli Stati governavano il sistema economico in modo pervasivo, favorendo le rendite della nobiltà; e il dirigismo statale da ridimensionare non chiudeva le porte alle politiche pubbliche. Tra i compiti statali che Smith individuò vi era il dirigere l’attività d’impresa verso i settori e le occupazioni più idonei agli interessi della società e una redistribuzione delle opportunità per porre rimedio agli effetti umanamente disastrosi della divisione del lavoro – Smith indicava tra i compiti dello Stato l’educazione scolastica popolare. Il mercato ritratto dal filosofo scozzese non era dunque un sistema naturale perfetto, capace di risolvere i problemi economici nel modo migliore possibile.
Ma ancora più significativa è l’idea di uomo che emerge da un’altra importante opera smithiana, Teoria dei sentimenti morali (1759): “Per quanto egoista lo si possa supporre – scriveva Smith all’inizio di quel saggio – l’uomo ha evidentemente nella sua natura alcuni principi che lo inducono a interessarsi alla sorte degli altri e che gli rendono necessaria la loro felicità”.
È l’idea di un’umanità il cui desiderio di relazionarsi viene prima di quello di scambiare merce contro denaro, che Smith ribadirà ne La Ricchezza delle nazioni: “nessuno ha mai visto un cane con un suo simile fare uno scambio di un osso contro un altro osso” mentre l’uomo “ha bisogno in ogni momento della cooperazione e dell’assistenza di moltissima gente”. Non solo interesse personale, quindi: l’animo umano è fatto prima di tutto di sentire comune. Niente di più lontano dalla parodia dell’homo oeconomicus.
(Davide Tondani)