Nasceva a Firenze cento anni fa, il 27 maggio 1923. Le parole di Papa Francesco sulla tomba del Priore di Barbiana furono quel riconoscimento che gli era stato negato in vita
Don Lorenzo Milani è stato un testimone, un profeta, un precursore, e molto altro. Ma, prima di tutto, è stato un sacerdote. Lo ha colto, con la nota profondità di sguardo, Papa Francesco: “Se non si comprenderà realmente il sacerdote che don Lorenzo è stato, difficilmente si potrà capire di lui anche tutto il resto”, come disse a Barbiana nella sua visita alla tomba del priore.
E infatti alla Chiesa e al Vangelo don Milani dedica la sua prima e costante attenzione, ben testimoniata dal volume “Esperienze pastorali” in cui egli analizza, con grande lucidità e lungimiranza, i limiti del modo di vivere l’evangelizzazione e la liturgia nelle parrocchie in cui egli svolge il suo ministero. Leggere oggi quell’opera consente di prendere consapevolezza della verità delle parole da lui pronunciate di fronte al suo cardinale: “Sa qual è la differenza, eminenza, tra me e lei? Io sono avanti di cinquant’anni”.
E forse quell’arco temporale, indicato come paradossale, può risultare oggi, almeno in alcuni contesti, addirittura limitato. Si pensi “all’eccesso di esteriorità e collettivismo che caratterizza le attuali usanze parrocchiali”, che non sembra certo interamente superato nella Chiesa di oggi: e di fronte al quale vale ancora la prospettiva indicata dal priore: “insistere quindi provvisoriamente sull’aspetto interiore e personale della religione. A tesi estrema, antitesi estrema”.
Ma si pensi anche all’atteggiamento dei sacerdoti nei confronti degli “assenti”. Commentando le processioni che venivano svolte nella sua parrocchia – “serenata di fiori, veli bianchi, festa di paese” -, don Milani si domanda se queste siano effettivamente un trionfo della fede, osservando che “il gruppo d’uomini che segue il Signore non è la parrocchia, è solo una chiesuola senza peso”.
E di fronte a quelli che non ci sono, la sua posizione non è quella del suo parroco – “Perdonali perché non sono qui con te” -, bensì una opposta: “Perdonaci perché non siamo là con loro”. Si comprende allora come egli avesse voluto, e quasi preteso, un riconoscimento della sua fedeltà alla Chiesa da parte del suo vescovo: “Se lei non mi onora oggi con un qualsiasi atto solenne, scrisse, tutto il mio apostolato apparirà come un fatto privato…”.
E questo riconoscimento è finalmente giunto, a cinquant’anni dalla morte, nella forma più autorevole possibile, con la visita alla “sua” Barbiana da parte di Papa Francesco e le parole da lui stesso pronunciate: “Non posso tacere che il gesto che ho oggi compiuto vuole essere una risposta a quella richiesta più volte fatta da don Lorenzo al suo vescovo, e cioè che fosse riconosciuto e compreso nella sua fedeltà al Vangelo e nella rettitudine della sua azione pastorale.
Oggi lo fa il Vescovo di Roma. Ciò non cancella le amarezze che hanno accompagnato la vita di don Milani – non si tratta di cancellare la storia o di negarla, bensì di comprenderne circostanze e umanità in gioco -, ma dice che la Chiesa riconosce in quella vita un modo esemplare di servire il Vangelo, i poveri e la Chiesa stessa”. La fedeltà al Vangelo si è coniugata, nella vita e nella testimonianza di don Milani, con una particolare attenzione e aderenza alla Costituzione italiana.
Che questa rappresentasse, per il priore, un riferimento fondamentale per la sua vita e la sua opera, può facilmente dedursi dal complesso dei suoi scritti: da tutti i suoi lavori, infatti, emerge la rilevanza che egli attribuiva al testo costituzionale e l’importanza che ad esso riconosceva come norma imperativa del vivere civile. Sia che si riferisse al valore della dignità umana come dell’eguaglianza tra persone, sia che affrontasse temi più “limitati” quali il diritto all’istruzione e l’organizzazione scolastica, il diritto al lavoro e gli strumenti di tutela dei lavoratori, la disciplina giuridica della guerra ed il valore dell’obbedienza, e così via, sempre il riferimento alla Costituzione ed ai suoi articoli risulta centrale e costante.
Tra le numerose citazioni che potrebbero proporsi, mi è sempre sembrato di una particolare forza, anche emotiva, il passaggio della Lettera a don Piero pubblicata, come seconda appendice, nel volume Esperienze pastorali. In esso si racconta dell’incontro di don Lorenzo con un industriale di nome Baffi, cui il sacerdote si era rivolto per raccomandare Mauro, un ragazzo che era rimasto senza lavoro ed il cui babbo, unico sostegno economico di una famiglia numerosa, si era ammalato e non poteva più lavorare.
Don Milani racconta quell’incontro, per lui difficilissimo per una serie di motivi, in quanto frutto di un tormentato dilemma tra aiutare una persona in grave difficoltà e il tradire un principio per lui irrinunciabile quale il non raccomandare nessuno: “raccomandare sul lavoro è un delitto, lo so, ma in quel caso non potetti resistere alla tentazione”.
Al termine dell’incontro, l’industriale si rivolge così al sacerdote: “Padre, io non posso assicurarle nulla. Io ne licenzio 5 o 6 la settimana e ne assumo altrettanti. Il lavoro a me non manca mai. Ma da me c’è un sistema speciale. A me piace l’ordine, la disciplina. Son sicuro che anche lei, padre la pensa così”. La risposta immediata del priore, non pronunciata di fronte all’interlocutore, contrappone alla violenza verbale del Baffi il primato della Costituzione: “Io penso invece all’art. 40 della Costituzione: il diritto di sciopero”.
E prosegue, sempre sullo stesso tono: “Possibile che il Baffi, uno stupido piccolo privato possa beffare così una legge che un popolo s’è data? Che un popolo ha pagato così cara: sangue, fame, guerra civile, elezioni tanto sofferte da ogni parte. E poi non è una legge qualsiasi. È quella che il Cristo attendeva da noi da secoli, perché è l’unica che ridia al povero un volto quasi d’uomo”.
V’è, in quella risposta, il senso profondo della Costituzione, anzi in primo luogo di ogni costituzione: potremmo dire, dell’idea stessa di costituzione. Ovvero la costituzione come limite al potere: qui inteso come potere economico e sociale, ma in ogni caso “potere”. Insieme, però, c’è il senso della costituzione come “norma giuridica”: una costituzione, in altri termini, che contiene principi e regole che devono guidare e condizionare l’azione di tutti coloro che operano all’interno dell’ordinamento.
Non un testo soltanto “sulla carta”, enunciazione di bei principi: al contrario, per don Milani, una “norma giuridica” che nessuno può violare e che a ciascuno deve essere opposta a garanzia dei propri diritti. Vangelo e Costituzione, dunque: su questi due elementi don Lorenzo Milani ha costruito la sua identità di cristiano e cittadino. Una testimonianza che appare, a distanza di cento anni dalla sua nascita, come luce che indica, a ciascuno di noi, la strada da seguire.
Emanuele Rossi
Membro del Comitato nazionale
per il Centenario della nascita di don Lorenzo Milani