“Testa alta, e avanti” In cerca di giustizia, storia della mia famiglia

Gaia Tortora, nata a Roma nel 1969 da Enzo e Miranda Fantacci, giornalista televisiva, nel libro Testa alta, e avanti, (Mondadori), racconta la storia della sua famiglia evidenziando ciò che successe dopo il clamoroso arresto del padre. Famosissimo giornalista e presentatore televisivo seguito da milioni di telespettatori specialmente durante “Portobello”, la trasmissione del venerdì sera. Sotto gli occhi di un pappagallo, appollaiato sul trespolo, ruotava un mondo di oggetti e di persone che affascinava il pubblico. Tortora era colto, elegante, gentile, brillante, ricco, stimato e benvoluto.
Ma il 17 giugno 1983 venne arrestato in un noto hotel della capitale per associazione camorristica e traffico di droga nel mondo dello spettacolo, per conto di Raffaele Cutolo. La televisione lo ritrasse, all’uscita del Commissariato di Roma, fra due carabinieri e le manette ben visibili ai polsi (immagine ben diversa da quella di Matteo Messina Denaro al momento dell’arresto…) Iiniziò così uno dei casi più eclatanti di malagiustizia del nostro Paese. Un campo davvero “minato” in cui la maggior parte degli Italiani continua a “seminare” parecchi punti interrogativi nel desiderio di una giustizia vera, lungi dalla inadeguatezza delle leggi, dalla durata irragionevole dei processi, dal corretto agire dei magistrati tanto che, ogni giorno, innocenti finiscono alle sbarre. Una calunnia gratuita, che costò a Tortora quattro anni di calvario giudiziario, mille giorni agli arresti, sette mesi in carcere, oltre quattordici mesi ai domiciliari nella sua casa milanese.
“Ho deciso di scrivere queste memorie – dice Gaia – perché so cosa significa vedere la propria vita, e quella dei propri cari, deragliare senza poter fare nulla. Conosco la fatica di rimettersi in piedi, quando si è a terra…”. Intanto i media continuano a comportarsi come fecero con suo padre. Le notizie negative danno stura ai titoloni dell’editoria, in radio e in televisione fanno audience aumentando i bilanci finanziari rendendo le coscienze sempre più opache, a scapito della verità. I pentiti, definiti da Tortora “La Nazionale del pentimento”, ottenendo vantaggi in termini di trattamento carcerario continuavano a blaterare notizie fasulle convincendo i “probi magistrati” mentre si consumava il calvario di una intera famiglia che non avrebbe avuto più nemmeno “un dopo” poiché il dolore logora, lacera, segna. Per sempre. Gaia cercò, con determinazione, di vivere una vita quasi “normale” con l’amore della mamma, della sorella Silvia, delle zie, degli amici veri, del padre e della fitta, affettuosa, corrispondenza che mantenne con lui mentre era in carcere col capo rasato. Era lui a spronarla a guardare oltre le nubi, a credere nella sua onestà a “camminare a testa alta …”poiché la verità sarebbe venuta a galla. Nonostante i momenti bui, Gaia sapeva che doveva “rigenerarsi” in una società che idolatra chi ottiene successo, anche senza scrupoli.
Il 15 settembre 1986, Enzo Tortora venne assolto con formula piena, per non aver commesso il fatto. Esultanza e sollievo ma niente sarebbe stato più come prima. Tortora era uscito dal carcere, ma il carcere sarebbe rimasto dentro di lui fino alla fine dei suoi giorni. Nonostante il fisico affaticato si dedicò alla difesa dei deboli, carcerati compresi, promuovendo il referendum radicale sulla responsabilità civile dei magistrati. Nel 1987 vide il trionfo del “sì”. Tornò alla conduzione di “Portobello” il 20 febbraio 1987 con la frase “Dunque, dove eravamo rimasti?” Invecchiato, con problemi di salute, un tumore lo portò alla morte il 18 maggio 1988, anche se la morte, nel suo animo, era arrivata molto prima.
Funerali solenni in Sant’Ambrogio fra gli applausi della folla. Gaia ricorda altri gravissimi errori giudiziari per cui urge, a chi di dovere, interrogarsi con scrupolosità verificando fatti ed eventi. Anche la sorella Silvia si è addormentata, a soli 59 anni, ampliando la voragine del dolore dell’autrice. Mai si mette in conto la perdita di chi è nata dalla stessa radice succhiando la stessa linfa. Per lei, ed altri amici carissimi, le ultime frasi del libro. Se le parole hanno un peso, soprattutto lo hanno le sentenze dei giudici. Chi vede morire i propri cari per dannati sbagli non può farsene una ragione, né raggiungere stabilità personale.
“C’è una crepa in ogni cosa ed è da lì che entra la luce” ma, a distanza, le crepe rimangono e la luce, anche dopo la sentenza di assoluzione, continua ad essere opaca. Prima di agire, pensiamo con rigore etico, morale e sociale. Magari anche cristiano.

Ivana Fornesi