Il governo ha impostato in un disegno di legge delega la sua riforma del sistema fiscale
Sovranista contro i diktat delle grandi istituzioni finanziarie internazionali, populista contro le élite borghesi colte e agiate, conservatrice sotto il profilo dei valori. Così la destra italiana ha mostrato la sua indole liberista sul terreno economico: spietata contro chi è colpevole di povertà, negando un reddito di cittadinanza presente ovunque nell’Europa avanzata; generosa con le fasce di popolazione più ricche, con buona pace dell’attenzione alle classi popolari periferiche; disinteressata alla tenuta finanziaria dei conti pubblici.
Nulla di sorprendente, se si guarda all’album di famiglia, quello in bianco e nero di un secolo fa e quello delle foto un po’ ingiallite degli ultimi decenni, ma l’idea di Fisco delineata dal governo Meloni merita di essere analizzata con attenzione. Lo scorso 16 marzo il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge-delega di riforma fiscale da presentare al Parlamento dopo l’approvazione del capo dello Stato richiesta dalla Costituzione.
Se le Camere rispetteranno i tempi dell’approvazione della legge delega, entro giugno 2024 e comunque entro la fine dello stesso anno, il governo avrà approvato i decreti legislativi che daranno forma al nuovo Fisco, trent’anni dopo le riforme di Visco e ad oltre 50 anni dalla riforma Visentini del 1951-52. Il testo della legge delega è abbastanza vago e lascia così ampia libertà di manovra al governo. Due le linee di azione previste sui redditi personali.
La prima: il fisco dell’era Meloni prevede una IRES (l’imposta sui redditi delle società) più bassa rispetto all’attuale 24%, con meccanismi premiali per le imprese che generano nuova occupazione o investono in ricerca e sviluppo. L’obiettivo è di arrivare in un paio d’anni ad aliquote prossime al 15% per attrarre in Italia capitali stranieri e favorire l’innovazione tecnologica.
La seconda: una nuova IRPEF con tre sole aliquote, rispetto alle 4 attuali (erano 5 fino allo scorso anno), meno divari tra uno scaglione e l’altro, meno detrazioni, che saranno parametrate al reddito imponibile. Il comune intento delle due novità è la riduzione del gettito, dichiarata esplicitamente nel disegno di legge, con un implicito vantaggio per i redditi di impresa e i redditi personali più alti.
Quanto alle altre imposte, il governo prevede la graduale soppressione dell’IRAP, autentica bestia nera della destra ma principale fonte di finanziamento della spesa sanitaria delle Regioni, e una razionalizzazione delle aliquote IVA. Per il resto, oltre alle intenzioni di sfrondare adempimenti e burocrazia, la delega prevede una limitazione delle attività di controllo dell’Agenzia delle Entrate in favore di un concordato preventivo sulle imposte da pagare senza correre il rischio di accertamenti, l’ennesimo naufragio della riforma del Catasto, il rinvio del confronto con Regioni e Comuni sui tributi locali.
E ancora: stesso trattamento fiscale per tutti i redditi da attività finanziarie, imposte sostitutive (le “cedolari secche”) su una vasta serie di entrate che, se sommate ai redditi personali, determinerebbero carichi di imposta ben più gravosi per i loro percettori. Le parole d’ordine su cui si basa il disegno di riforma sono quelle consuete: la semplificazione, la riduzione di evasione ed elusione, lo stimolo alla crescita economica.
Gli assiomi su cui poggiano questi obiettivi sono altrettanto conosciuti: l’evasione si può ridurre abbassando le aliquote, minori imposte implicano più crescita. Sono i capisaldi della teoria economica liberista (peraltro smentiti dall’evidenza empirica) a cui il governo ha affiancato un blando richiamo alla necessità di preservare la progressività del sistema tributario, giusto per non incappare in un conflitto esplicito con l’articolo 53 della Costituzione. A questa serie di preoccupazioni si affianca un problema, anzi, “il problema”: quello delle minori entrate. Giornali e siti specializzati stanno facendo circolare stime di minori entrate derivanti dalla riforma per almeno 30 miliardi l’anno.
Dove saranno reperiti? Attraverso nuove privatizzazioni? Con tagli alla spesa sociale, istruzione e sanità per prime? Il governo stesso, per bocca del viceministro all’Economia e alle Finanze, Maurizio Leo, ha sottolineato che sulle “coperture” al momento non ci sono certezze e sarà necessario seguire l’andamento della finanza pubblica. In sintesi: una bozza di riforma che non solo tratte le imposte come il peggior nemico degli italiani – e in questo la destra fa la destra – ma che procede a tentoni nonostante l’Italia sia titolare del debito pubblico più grande dell’area euro in una fase macroeconomica molto incerta, con tassi di interesse al rialzo e in cui basta un minimo segnale ambiguo per fare aumentare lo spread dei titoli pubblici. Insomma, c’è molto di cui preoccuparsi.
(Davide Tondani)