Netta l’affermazione della maggioranza di governo ma crolla l’affluenza al voto
Volendo seguire le regole del giornalismo, secondo le quali a fare notizia è l’uomo che morde il cane, si dovrebbe iniziare il commento alle elezioni regionali di domenica scorsa ragionando sul dato sconfortante della scarsa partecipazione al voto. Ma questo potrebbe essere letto come un tentativo di sminuire la netta affermazione di Giorgia Meloni e dei suoi alleati di governo, per questo motivo seguiamo la prassi che vuole una prima analisi dedicata all’esito delle votazioni.
Intanto, è da evidenziare il fatto che, sia in Lombardia che nel Lazio, i candidati della coalizione di destra-centro hanno ottenuto oltre il 50% dei consensi: arrotondando, 55% ad Attilio Fontana e 54% a Francesco Rocca. Appaiati – e al palo – sono risultati gli avversari (si fa per dire) di centrosinistra Pierfrancesco Majorino e Alessio D’Amato, entrambi al 34%.
Non pervenute Letizia Moratti (Terzo Polo, sic!) e Donatella Bianchi (M5S), ferme al 10%. Sgombriamo subito il campo dalla riflessione sull’assurdità della candidatura di Fontana in Lombardia, dopo i fatti legati al Covid-19, e del relativo consenso da lui ottenuto (nonostante quei fatti): quando il vento soffia in una certa direzione, qualunque candidato si presenti per la parte favorita da quel soffio ha la certezza di vincere.
Tolto questo dente, veniamo ai dati dei singoli partiti. Esce trionfatore FdI, con il 34% nel Lazio e il 25% in Lombardia: in entrambi i casi primo partito. Regge, sia pure con numeri caratterizzati dalle recenti perdite di consenso, la Lega, che in Lombardia registra un 17% forse anche insperato; si ferma al 9% scarso nel Lazio. Questo permette a Salvini di unirsi al carro del vincitore ma non di sentirsi tale. Forza Italia, che Berlusconi si ostina a tenere sotto il suo stretto controllo, non scompare, ma ottiene solo il 7% a Milano e l’8% a Roma.
Numeri che possono dare un po’ di respiro alla “opposizione” dentro alla maggioranza ma che danno ampia libertà di azione e possibilità di decisione nell’azione di governo a Giorgia Meloni. Solo dolenti note si possono scrivere sulla situazione in cui versano le opposizioni, proprio anche a seguito dei risultati delle regionali.
L’unico partito che può esprimere una qualche soddisfazione – e questo la dice lunga – è il Pd che, orfano ormai da mesi (da anni?) di una vera e propria leadership e impelagato in una preparazione dell’elezione del nuovo segretario che sembra non aver mai fine, “regge” comunque con un 21 e 20% nelle due regioni. Impietosi i risultati per gli altri partiti. M5S al 4% in Lombardia, dove si presentava nella coalizione di Centrosinistra, 9% scarso nel Lazio, con una sua propria candidata.
Anche ammettendo tutte le considerazioni sulla mancanza di un radicamento sul territorio, si dovrà pure ammettere che non si tratta di risultati brillanti! Azione e Italia Viva hanno pagato duramente l’ostinazione sul nome di Letizia Moratti in Lombardia: con la sua lista, la candidata di Calenda e Renzi ha raggiunto il 5%, un punto in più rispetto al 4% ottenuto dei due partiti assieme. Da registrare che, sommando le liste a sinistra del Pd, nel Lazio si registra un 5% di scarso valore, se non di bandiera.
Appare chiaro che, nel breve, Giorgia Meloni può permettersi di mantenere la barra del timone fissata sulla rotta definita all’indomani delle elezioni, mentre per le forze che ormai è difficile raggruppare in un banale “centrosinistra” vale il detto reso famoso da Gino Bartali: “gli è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”. Sarà compito della nuova dirigenza Pd portare avanti un’azione di ricucitura con gli ipotetici alleati, ma anche i leader di questi partiti dovranno rivedere tante scelte. Una sola la ‘mission’, se non vogliono rendere perpetua la vittoria della destra: leggere con attenzione le leggi elettorali e trovare le ragioni per un accordo che le sfrutti invece di ignorarle, per non fare la fine di don Chisciotte con i mulini a vento.
E veniamo, finalmente, all’astensione dal voto. Nel gioco delle parti, a dare maggior peso a questo dato è di solito chi perde, ma quando si scende al 41,61% (Lombardia) e al 37,20% (Lazio) – nel 2018, in contemporanea con le politiche, erano il 73,81% e il 66,55% – il campanello d’allarme non può non suonare per tutti. Se un’amplissima maggioranza degli oltre 12 milioni di elettori aventi diritto non ha votato, si può dire che sia in gioco la democrazia perché chi vince, anche superando il 50% dei voti espressi, in tutta onestà deve ammettere di non rappresentare con certezza la maggioranza dei cittadini. Due sono le indicazioni che possono emergere a colpo caldo.
Chi vince, deve tener conto di questo e operare scelte di governo che non vadano solo nel senso della sua parte ed aprire un confronto leale con le minoranze. Più in generale, la politica deve fare un onesto, per certi versi impietoso, esame di coscienza su quanto ha contribuito ad allontanare gli elettori dal voto e quanto può e deve fare per avviare una inversione di tendenza di cui il Paese ha un disperato bisogno.
Antonio Ricci