
Il dolore del Santo Padre per lo sfruttamento e per la guerra e la violenza che opprimono l’Africa

Il viaggio pastorale di Papa Francesco nella Repubblica Democratica del Congo e in Sud Sudan – 40° del suo pontificato – ha portato ancora una volta alla ribalta popoli e realtà troppo spesso colpevolmente dimenticate. Mondi lontani, afflitti da drammi che dovrebbero interrogare la coscienza di un primo mondo che sulle rovine di questi popoli crea la sua ricchezza.
Non è una novità che Paesi ricchissimi di materie prime diventino fonte di progresso e di ricchezza per tutti tranne che per le loro popolazioni. Anzi, quelle popolazioni sono colpite da guerre decennali, in parte prodotte da tensioni etniche, in parte “coltivate” da chi ha interesse ad alimentare i contrasti. Per questo il Papa grida: “Fate tacere le armi, mettete fine alla guerra. Basta arricchirsi sulla pelle dei più deboli, basta arricchirsi con risorse e soldi sporchi di sangue!”.
E aggiunge: “Giù le mani dalla Repubblica Democratica del Congo, giù le mani dall’Africa!”. Da un lato, c’è l’invito alle parti in causa all’interno dei due Paesi, dall’altra la denuncia di appropriazioni indebite nei confronti di chi, fomentando i disordini, condanna un intero continente: una forma di neocolonialismo che tocca gran parte dell’Africa, e la condanna a restare nella miseria e nella fame.

Dal punto di vista pastorale Papa Francesco era “di casa”. Le due Chiese sono molto vive. Alla fine del 2021 il Congo contava 1.637 parrocchie, 6.162 sacerdoti, 10.525 suore, 18.671 istituti scolastici, un numero imprecisato, ma straordinario di catechisti laici: la struttura vitale della Chiesa di un Paese che ha una popolazione di circa 52 milioni di cattolici, pari al 49% della popolazione.
Non dissimile la situazione del Sud Sudan con 7 diocesi, 300 sacerdoti, 3.756 catechisti e col 52,4% della popolazione cattolica. Come sempre, ci sono stati gli incontri con le autorità civili e con i vescovi e gli operatori pastorali di quelle Chiese; a tutti ha raccomandato di essere testimoni e di evitare in qualsiasi modo di compromettersi con i vari poteri, di coltivare la fraternità tra le varie etnie. Una fraternità che diventa testimonianza autentica di vangelo vissuto e può contribuire alla pace.
Due sono stati i momenti significativi e più densi di pathos. In Congo, dopo essere stato accolto da oltre un milione di persone, nella celebrazione eucaristica Papa Francesco ha voluto incontrare una rappresentanza delle vittime dell’odio e della violenza che vivono nella parte orientale del Paese, dove non ha potuto recarsi per questioni di sicurezza. I loro racconti sono stati agghiaccianti. Emelda, a 16 anni tenuta come schiava sessuale per tre mesi racconta: “Ogni giorno da cinque a dieci uomini abusavano di ciascuna di noi. Ci hanno fatto mangiare la pasta di mais e la carne degli uomini uccisi. A volte mescolavano le teste delle persone con la carne degli animali. Questo era il nostro cibo quotidiano. Chi si rifiutava di mangiarlo veniva fatto a pezzi e gli altri erano costretti a mangiarlo”.

A parlare sono state soprattutto le donne, come Bijoux, che a 14 anni è stata violentata ripetutamente ogni giorno, per 19 mesi, dal comandante di una brigata di ribelli sopraggiunti nel suo villaggio e ora stringe a sé due gemelli frutto di quelle violenze, oggetto delle tenere carezze del Papa. Una ad una le vittime della guerra e dell’odio hanno deposto davanti al grande Crocifisso i simboli delle loro torture – un machete, un coltello, una lancia, l’uniforme dei guerriglieri, la stuoia dove venivano perpetrati gli abusi – per dimostrare che il perdono è possibile se si è in grado di “smilitarizzare il cuore”, come ha chiesto il Papa nel suo discorso, esortando ogni abitante del Paese a divenire costruttore responsabile del suo futuro dicendo ‘sì’ alla riconciliazione, ‘no’ alla rassegnazione.
L’altro momento in Sud Sudan, dove la disumanizzazione mostra un’altra faccia. Lì alle guerre etniche per il potere si aggiungono le carestie. È un Paese dove, da una decina di anni, oltre 5 milioni di persone, su una popolazione di circa 14 milioni, vivono in grandi campi di profughi interni. È il Paese nato dall’insurrezione contro il Sudan, che perseguitava pesantemente i cristiani. Lì la logica è rimasta quella della forza, non del dialogo. Il tema della pace, del perdono – difficile da vivere in quelle situazioni -, della smilitarizzazione dei cuori è ricorrente: “Non si può più attendere, ha detto Francesco, perché un numero enorme di bambini nati in questi anni ha conosciuto soltanto la realtà dei campi per sfollati, dimenticando l’aria di casa, perdendo il legame con la propria terra di origine, con le radici, con le tradizioni”.
E in quel Paese Papa Francesco, proprio per dimostrare che il dialogo è possibile, ha avuto come compagni di viaggio i “fratelli” Justin Welby, arcivescovo di Canterbury e primate della Chiesa anglicana, e Iain Greenshields, il moderatore dell’Assemblea generale della Chiesa di Scozia.
Un viaggio ecumenico che è diventato segno di fraternità e di pace possibile.
Giovanni Barbieri