Dalle accuse di modernismo, al protagonismo conciliare, alla difesa intransigente della dottrina: il lungo percorso intellettuale e spirituale del teologo Joseph Ratzinger
Parlare di Benedetto XVI come di un papa fuori dal comune non è una concessione al sensazionalismo, ma la presa d’atto che Joseph Ratzinger non è stato soltanto Papa della Chiesa cattolica per 8 anni, ma anche, prima dell’elezione a vescovo di Roma, il teologo che, come studioso e poi come prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha inciso come pochi altri sugli orientamenti teologici e dottrinali della vita della Chiesa degli ultimi 60 anni. Per questo la sua complessa vicenda intellettuale e spirituale non può essere trascurata e nemmeno inquadrata nelle semplificatorie categorie del conservatorismo, soprattutto se si guarda agli esordi della sua carriera di studioso.
La sua tesi di dottorato su Sant’Agostino e sulla Chiesa intesa “come universale popolo di Dio” (siamo sul finire degli anni ‘40 e negli stessi anni Pio XII definiva la chiesa “Corpo mistico di Cristo”) e le sue tesi sulla mondanità di una “Chiesa di pagani che si chiamano ancora cristiani ma in verità sono diventati pagani”, esposta negli anni dell’insegnamento di Teologia dogmatica a Frisinga, gli valsero l’accusa di modernismo. Altrettanto ardite furono giudicate le affermazioni, esposte nel 1952 nella sua tesi di abilitazione all’insegnamento teologico, sulla Rivelazione come azione storica di Dio nel mondo, la cui comprensione può mutare con il mutare della storia umana.
Furono proprio i mutamenti storici a fare del giovane docente bavarese sospettato di eccessi riformatori uno degli indiscussi protagonisti del Concilio Vaticano II. A Roma, il professor Ratzinger arriverà come collaboratore del cardinale Josef Frings, arcivescovo di Colonia. Di fatto è sua l’ispirazione di una delle quattro costituzione dogmatiche del Concilio: nelle prime discussioni generali sul rapporto tra Scrittura e Tradizione, Ratzinger sostenne che nessuna delle due poteva essere considerata fonte della Rivelazione: l’unica vera fonte è la parola di Dio stessa, di cui Scrittura e Tradizione sono strumenti. Fu un colpo al tradizionalismo ecclesiastico, che convinse la maggioranza dei padri conciliari a rifiutare le bozze predisposte dal Sant’Uffizio e spianò la strada all’approvazione della costituzione Dei Verbum; quella parola di Dio che, per essere compresa, necessitava di un permanente approfondimento che passava per un “largo accesso alla sacra Scrittura” anche da parte dei laici.
La fine del Concilio coincise con i movimenti di massa e la contestazione giovanile del ’68, un’onda che penetrò anche nella comunità ecclesiale, alle prese con la stagione del dissenso cattolico, e che metteva in discussione i fondamenti, i valori e le certezze assolute della società per sostituirli con nuovi paradigmi individualisti, dove tutto è relativo, precario, in divenire. La post-modernità affermatasi con quegli eventi segnò il mutamento di rotta del professor Ratzinger e la sua separazione dalle correnti teologiche più innovatrici. Il relativismo – cioè la demolizione di qualsiasi realtà assoluta e oggettiva e di qualsiasi legge morale universale – venne interpretato dal teologo tedesco come il frutto della mentalità post-moderna che maggiormente insidiava l’esistenza della Chiesa, percorsa dal rischio di essere ricondotta ad una costruzione umana da riorganizzare liberamente a seconda delle esigenze del momento: l’ermeneutica del Concilio inteso come evento di continuità e non di rottura rispetto alla Tradizione fu l’argine posto da Ratzinger contro questo pericolo.
Divenuto prefetto della Congregazione della dottrina della Fede, a fare i conti con questa linea, sostenuta da Giovanni Paolo II, furono in molti: dai teologi della liberazione latinoamericani ai riformatori tedeschi da un lato, a Marcel Lefevre e ai tanti ultraconservatori, dall’altro. Posizioni contrapposte generate dai venti che agitavano “la piccola barca del pensiero di molti cristiani gettata da un estremo all’altro” di cui parlò il card. Ratzinger nella sua ultima omelia prima di entrare nel Conclave che nel 2005 lo avrebbe eletto papa. Quello stesso giorno, denunciò “una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie” contrapposto a “una fede profondamente radicata nell’amicizia con Cristo che ci apre a tutto ciò che è buono e ci dona il criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità”. Parole che vanno oltre la sua evoluzione intellettuale e permettono di vedere Benedetto XVI per quello che è stato lungo tutta la sua vita: un cercatore della verità nella carità di Dio.
Davide Tondani