Continua a farci paura

Domenica 11 settembre – XXIV del tempo ordinario
(Es 32,7-11.13-14 – 1Tm 1,12-17 – Lc 15,1-32)

E il figlio minore continua a farci paura. Ecco perché continuiamo a leggere questa parabola con toni moralistici: il figlio maggiore ci sembra ingiustamente trascurato, il minore viziato e il padre un uomo debole e ingenuo. Ci spostiamo volentieri sul piano moralistico perché solo così la parabola ci sembra comprensibile, solo così possiamo fare il gioco del fratello maggiore: giocare a essere impeccabili. E tacere. Illudersi che il rancore provato contro padre e fratello, e le parole di accusa e la rabbia non siano un male ma la giusta espressione di chi si sente tradito. E invece Gesù, che ama ciò che è scritto nel cuore, che adora ciò che è sepolto nel nostro intimo, continua a portare alla luce le ipocrisie. È proprio quell’odio nascosto a essere un peccato gravissimo!
Eppure è il figlio minore che continua a farci paura, fino a quando riusciamo a relegarlo al ruolo di ingrato peccatore lo schema del mondo regge: basta apparire obbedienti, stare zitti e far finta di essere persone a posto. A noi il figlio minore fa paura ma a Gesù no. Quell’attesa e quell’abbraccio, quella festa e quelle lacrime non sono finte. Sono gli atti conclusivi di una gravidanza. Gesù racconta di un parto. Di una nascita. Quella del minore. Mentre il maggiore rimane, non sappiamo per quanto ancora, sospeso tra la vita e la morte.
Il figlio minore ci fa ancora paura perché lui è nato, perché lui continua a mostrare quale strada dobbiamo intraprendere tutti noi per nascere, finalmente, alla vita. Il figlio minore ci fa paura perché ha il coraggio di uccidere il Padre: “dammi la parte di patrimonio che mi spetta”, è questo che dobbiamo fare per diventare uomini: prendere le distanze, assumere il peso della libertà, strutturarci come uomini liberi. Pendere le distanze perché finalmente stare in casa diventa impossibile, partire perché la vita non va replicata solo per imitazione, prendere le distanze per non rimanere vittime di fascinazioni indebite, per spegnere quell’alone di perfezione che abbiamo proiettato addosso ai padri all’epoca dell’infanzia. Bellissimo il padre della parabola: lascia andare. Si lascia ammazzare.
Questa parabola ci fa paura perché sentiamo il brivido di quella strada che ci porta lontano dalle pareti domestiche. Allontanarsi significa assumere il rischio dell’errore, allontanarsi significa dire, ad alta voce, che non ci basta prendere ciò che ci viene consegnato ma, soprattutto, allontanarsi significa predisporsi alla scelta. Il figlio minore decide, decide di tornare. E la parabola è bellissima perché la decisione non è per niente eroica anzi, moralisticamente ragionando, è una scelta di comodo di un ingrato che ha solo finito i soldi e che ha toccato il gradino più basso della solitudine e dell’umiliazione. Moralisticamente non comprendiamo il padre che accoglie il figlio senza metterlo alla prova.
Moralisticamente non si comprende la vita! È bello che la decisione di tornare a casa presa dal figlio minore sia invece qualcosa di molto quotidiano e di ipocrita perché ci permette di comprendere che anche a noi è data questa possibilità. Non importa come, l’importante è che noi si decida di noi. L’importante è che noi si decida. Se non taglio il cordone ombelicale io non decido: occorre recidere per decidere.

don Alessandro Deho’