Il “pellegrinaggio penitenziale” del Papa in Canada ha sancito la condanna di una storia non onorevole
“Non c’è cosa peggiore, dinanzi ai fallimenti, che quella di fuggire per non affrontarli”, osserva Francesco, mettendo in guardia dalla “tentazione della fuga: fare la strada all’indietro, scappare dal luogo dove i fatti sono avvenuti… È una tentazione del nemico, che minaccia il nostro cammino spirituale e il cammino della Chiesa… vuole farci credere che quel fallimento sia ormai definitivo, vuole paralizzarci nell’amarezza e nella tristezza, convincerci che non c’è più niente da fare e che quindi non vale la pena di trovare una strada per ricominciare”.
Il Vangelo ci rivela, invece, che “proprio nelle situazioni di delusione e di dolore, proprio quando sperimentiamo attoniti la violenza del male e la vergogna della colpa, quando spogliati di tutto ci sembra di non avere più nulla, proprio lì il Signore ci viene incontro e cammina con noi”, come a Emmaus. In pratica sono le parole conclusive del “pellegrinaggio penitenziale” che papa Francesco ha voluto svolgere in Canada, affrontando le problematiche di una storia non onorevole, che ha visto la Chiesa canadese collaborare a un piano di assimilazione forzata e di discriminazioni che ha riguardato oltre 150.000 bambini, strappati dalla loro terra e dalle loro famiglie per costringerli ad assumere la cultura dominante dei “bianchi”.
È lo scandalo delle scuole residenziali in cui la Chiesa canadese, insieme ad altre Chiese protestanti si è trovata invischiata. Il Papa ha ascoltato il grido di dolore delle popolazioni indigene e non ha girato la faccia dall’altra parte. Avendo egli stesso definito il viaggio apostolico un “pellegrinaggio penitenziale”, Francesco ha voluto evidenziare la portata storica del momento. Gli indigeni sono circa il 5% della popolazione canadese, poca cosa, ma è proprio per questo che il viaggio del Papa assume un significato importante. È lo sguardo sui poveri, sugli ultimi, sui senza voce.
D’altra parte, la Chiesa canadese, che già dava segni di pacificazione, ha bisogno di guardare in faccia la realtà storica, anche se brutale, di riconoscerla e di farne ammenda. Le parole del Papa, subito dal primo giorno del viaggio, sono apparse decise: “Chiedo perdono per i modi in cui, purtroppo, molti cristiani hanno sostenuto la mentalità colonizzatrice delle potenze che hanno oppresso i popoli indigeni. Sono addolorato. Chiedo perdono, in particolare, per i modi in cui molti membri della Chiesa e delle comunità religiose hanno cooperato, anche attraverso l’indifferenza, a quei progetti di distruzione culturale e assimilazione forzata dei governi dell’epoca, culminati nel sistema delle scuole residenziali”. “Vorrei ribadirlo con vergogna e chiarezza: chiedo umilmente perdono per il male commesso da tanti cristiani contro le popolazioni indigene”.
La lezione che sarebbe bene ognuno imparasse, dal politico più navigato al cittadino più sprovveduto, dovrebbe essere quella di assumersi le proprie responsabilità, anche quando sono pesanti e vergognose, e chiedere perdono senza tema di rimetterci la faccia. Naturalmente non ci si può fermare alle parole. Le scuse sono solo un punto di partenza.
Se si viole realmente avviare un processo di riconciliazione bisogna “condurre una seria ricerca della verità sul passato e aiutare i sopravvissuti delle scuole residenziali a intraprendere percorsi di guarigione dai traumi subiti”. Per questo c’è l’invito alle Chiese – già si sta facendo – ad investire in persone, comunità e fondi per sostenere le comunità indigene nelle difficoltà concrete ancora persistenti. Soprattutto c’è l’invito a ricordare che è necessario rispettare la dignità di tutte le culture, perché tutte hanno valori importanti da trasmettere. Tra le altre cose, il valore della famiglia, del tempo, del rispetto della natura.
Il Papa si pone anche alcune domande che rivolge soprattutto alla Chiesa locale e alle autorità: “Abbiamo ricevuto tanto dalle mani di chi ci ha preceduto: che cosa vogliamo lasciare in eredità ai nostri posteri? Una fede viva o all’acqua di rose? una società fondata sul profitto dei singoli o sulla fraternità? un mondo in pace o in guerra? un creato devastato o una casa ancora accogliente?”.
Bisogna tentare risposte tenendo conto che il colonialismo strisciante è sempre presente: “Anche oggi non mancano colonizzazioni ideologiche che contrastano la realtà dell’esistenza, soffocano il naturale attaccamento ai valori dei popoli, tentando di sradicarne le tradizioni, la storia e i legami religiosi… Così si impianta una moda culturale che uniforma, rende tutto uguale, non tollera differenze e si concentra solo sul momento presente, sui bisogni e sui diritti degli individui, trascurando spesso i doveri nei riguardi dei più deboli e fragili: poveri, migranti, anziani, ammalati, nascituri”.
Non ci sarebbe bisogno di aggiungere che il pellegrinaggio penitenziale è stato accolto con entusiasmo e fiducia dalla Chiesa, dal popolo canadese, soprattutto dagli indigeni, che hanno visto una risposta al loro dolore.
Giovanni Barbieri