Venti anni di Euro tra speranze, crisi e salvataggi
La sede della Banca Centrale Europea a Francoforte

Nel gennaio di 20 anni fa i cittadini di 11 paesi europei familiarizzarono con le banconote e le monete della nuova divisa europea, l’ Euro, che mandò in pensione le vecchie valute nazionali. Il lungo percorso che portò al 2002 partì nel 1988 quando l’allora presidente della Commissione Ue, il francese Jacques Delors, costituì un comitato i cui lavori gettarono le basi per una moneta comune all’interno della Cee. La fine del regime dei cambi fissi basati sul dollaro, a sua volta fissato sull’oro, che regolò l’economia internazionale dal Dopoguerra al 1971 imponevano la necessità di trovare una soluzione alle fluttuazioni dei tassi di cambio che mettevano a repentaglio, in anni di progressive liberalizzazioni dei movimenti di capitali, le monete nazionali soprattutto quelle più fragili, come la lira italiana, sottoposte in quei decenni a ripetuti shock come
il crollo del 19 luglio 1985, quando il dollaro schizzò in pochi minuti da 1.870 a 2.200 lire, o la svalutazione del 30% nel settembre 1992, successivamente ad una delle più aggressive operazioni speculative della finanza globale, a cui seguì una finanziaria da 92 mila miliardi con prelievo sui conti correnti. Una moneta più stabile ha rappresentato per paesi come l’Italia anche un contenimento del costo del denaro e della spesa per interessi a servizio del debito pubblico: benefici concreti, non facilmente comprensibili per l’opinione pubblica, la cui percezione dell’euro è stata inquinata dall’aumento dei prezzi del 2002-2003, dovuto non alla nuova moneta ma allo smantellamento delle strutture di controllo previste per la fase di transizione e abolite dal governo di centrodestra, una scelta che avvantaggiò considerevolmente e in modo iniquo i settori del commercio e dei servizi.

“Whatever it takes’: tutto il necessario per preservare l’euro”

Tra il 2011 e il 2015 l’unione monetaria e politica dell’Europa fu seriamente in pericolo. Mario Draghi, presidente della BCE dal 2011 al 2019, fu uno dei massimi protagonisti di quegli anni. Un ruolo, quello del banchiere italiano, contraddistinto da luci e ombre. Con un celebre discorso tenuto il 26 luglio del 2012, durante un forum di investitori a Londra, nelle settimane in cui la speculazione finanziaria scommetteva sul default di Spagna e Italia, paesi troppo grande per potere essere lasciati fallire senza conseguenze devastanti per l’intera Europa, Draghi, annunciò che avrebbe fatto whatever it takes, tutto il necessario, per preservare l’euro, usando le riserve del sistema delle banche centrali. “E credetemi”, chiosò con un tono che impressionò gli esperti di comunicazione, “sarà abbastanza”.
Fu un segnale tardivo (negli Stati Uniti la Federal Reserve acquistava titoli di stato e immetteva liquidità nell’economia già dal 2009) ma risolutivo nella risoluzione della crisi dei debiti sovrani, come mostrò la rapida discesa dello spread. Nel gennaio del 2015 Draghi annunciò poi un nuovo piano di acquisto di titoli, il cosiddetto Quantitative Easing, che ha sostenuto (e in parte ancora sostiene) il mercato dei titoli di stato europei. Se per queste decisioni all’attuale capo del governo è stato dato atto di avere salvato l’euro dalla dissoluzione, il ruolo giocato da Draghi durante la crisi greca proietta sulla sua figura un rilevante cono d’ombra. Nel febbraio 2015, pochi giorni dopo l’insediamento del nuovo governo di sinistra ad Atene, senza aspettare di vedere il piano di risanamento proposto dal primo ministro Tsipras, Draghi decise di sospendere la deroga che consentiva alle banche greche di ottenere dalla BCE denaro liquido di fatto in cambio di nessuna garanzia.
Si trattò per molti osservatori di una decisione meramente politica, non di competenza della BCE, a cui seguì la successiva sospensione della liquidità di emergenza concessa alle banche greche che determinò la drammatica corsa ai bancomat tra giugno e luglio 2015: due mosse che misero al tappeto Atene e che di fatto anticiparono l’umiliazione che il Consiglio Europeo diede alla Grecia, facendola sprofondare in una crisi sociale devastante, che rimarrà la pagina più vergognosa della storia dell’Unione Europea. (d.t.)

 

Romano Prodi, presidente del Consiglio fra il 1996 e il 1998

L’euroscetticismo si è alimentato anche dell’impossibilità di impiegare le periodiche svalutazioni della lira per rendere merci e servizi italiani più competitivi all’estero, a maggior ragione in anni in cui si è cominciata a far sentire in modo pesante sul comparto manifatturiero la concorrenza dell’Est Europa e della Cina. Privato di questa opzione, il mondo imprenditoriale italiano, caratterizzato da una struttura industriale frammentata e poco propenso agli investimenti in capitale e in innovazione, da allora ha oscillato tra le pulsioni antieuropee tipiche della piccola e media impresa e una svalutazione del lavoro che ha prodotto crescenti disuguaglianze sociali senza migliorare la situazione macroeconomica.

Carlo Azeglio Ciampi (1920 – 2016)

Confutare le tesi no-euro non significa che la moneta comune non sia stata immune da problemi. La retorica con cui si sottolineò che l’euro avrebbe dato una spinta energica alla costruzione di un’Europa politica fu travolta dagli effetti della crisi economica del 2008.
Di fronte all’aumento vertiginoso del debito pubblico e al rischio di fallimento di Stati come Portogallo, Irlanda o Grecia, si scelse di trattare gli Stati in difficoltà come se i loro destini non riguardassero l’intera Unione Europea: prestiti in cambio di riforme dai dolorosi costi sociali e rispetto dei vincoli di bilancio pattuiti 15 anni prima e resi anacronistici dalla recessione furono gli strumenti di un insensato dogmatismo liberista messi in campo pur di non attivare la formidabile potenza dell’euro, nato proprio per difendere l’Europa dai grandi shock globali.
Le tensioni politiche e l’umiliazione diplomatica della Grecia, nel 2015, segnarono il punto più basso della storia dell’integrazione europea. Solo quando il rischio di default lambì Spagna e Italia, due economie troppo grandi per fallire senza conseguenze devastanti anche per i paesi più solidi dell’Unione, la BCE di Mario Draghi scelse di intervenire – nonostante la feroce avversità di paesi come la Germania – con le armi della politica monetaria: troppo tardi per arginare il montare del sovranismo antieuropeo che ha dilagato nel Continente negli ultimi anni, ma appena in tempo per scongiurare una crisi senza fine di un’unione monetaria oggi messa di fronte alla prova del Covid.
Se la sospensione dei vincoli di bilancio ottenuta nel 2020 per merito di Italia e Francia cesserà nel 2023, come desiderano i paesi fautori del “rigore”, il ritorno alle vecchie regole potrebbe portare a nuove pericolose tensioni. A indicare l’orizzonte di una moneta oggi utilizzata da 350 milioni di persone in 19 Stati e da altri 175 milioni di cittadini fuori dall’Europa – l’euro è ormai la seconda valuta di riserva dopo il dollaro – saranno soprattutto gli orientamenti della cancelleria tedesca insediatasi poche settimane fa.

Davide Tondani