Il dialetto è stata la lingua madre degli italiani, anche di quelli che ora hanno una certa età, a metterlo in disparte sono state le forti trasformazioni della società italiana del dopoguerra. I dialetti sono parlate molto idiomatiche, similitudini e proverbi desunti dal mondo reale, non hanno sostantivi astratti, questi sono in italiano (virtù, libertà, dignità…).
Per esigenze funzionali e organizzative e della nuova comunicazione audiovisiva si è imposto l’uso di un italiano comune e le specifiche identità locali del parlare andrebbero perse se non ci fosse chi scrive nel proprio dialetto per salvarlo, per lasciare testimonianza di un bene culturale importante a cui anche gli accademici della lingua e della storia letteraria cominciano a dare importanza. La storia della letteratura italiana inizia nel sec. XIII con composizioni in almeno sette dialetti o lingua del popolo, il volgare: quello toscano e precisamente il volgare fiorentino diventa la lingua nazionale per l’eccezionale grazia che ci ha dato all’inizio due fiorentini del livello di Dante e Boccaccio e l’aretino Petrarca. Scrittori dialettali importanti si trovano in ogni periodo (Maggi, Porta, Belli, Trilussa, Marin..).
Veniamo a Pontremoli: sono davvero tanti gli autori di piccoli volumi in dialetto pontremolese. In vetrina di recente è esposto un piccolo libro di Giorgio Rabuffi (“Poesie e racconti in pontremolese”, pagg. 68) con venti composizioni scritte, con solo pochi segni diacritici della linguistica, come in presa diretta nel dialetto del centro storico, che presenta già alcune differenze dalle zone esterne alla penisoletta tra la Magra e il Verde.
Trascorre in tutte un delicato sentimento di nostalgia, l’elegia è la “ninfa gentile” che addolcisce i ricordi amari del minestrone di guerra, la povertà delle vesti o rifà vive le gioie degli amori dichiarati nella notte di Natale o nella domestica quiete di casa, le scalate al monte Marmagna nell’esuberanza dell’adolescenza, ancora ignari che la vita se ne va e diventa i tuoi “amarcord” o il manifesto, “tabèla” a cui dare un’occhiata rapida in fondo al ponte Zambeccari Giorgio Rabuffi racconta aneddoti coloriti, scenette di vita quotidiana, scherzi esilaranti, abitudini, persone care come nonna Angiolina, piccina piccina ma con una gran fibra, emblema di tutte quelle mamme che non avevano paura a fare e nutrire figli nelle ristrettezze consuete e diventate esasperate nei mesi della guerra. Sopravvivere si poteva con la farina di castagne consumata in tutte le ricette; sfollato a Bassone, paese di brava gente, gentili, educati e lavoratori, ne aveva mangiato tanta, ma poi basta! Per decenni scappò la voglia.
Anche l’autarchia aveva portato a tirar la cintola, a tagliare sottile le cose con la scorza “cun la man dal barbér”, a usare biciclette rattoppate, e il ciabattino Balaben riparava le scarpe usurate dal frenare. Sentimenti, situazioni difficili di persone che però non tradivano la loro dignità, solidali, con qualche limite ma senza mancare di rispetto: per questi aspetti un tempo di buon ricordo ma per le condizioni pratiche del vivere speriamo che non ritorni. Il volumetto oltre ai contenuti si arricchisce di commento figurativo per ogni composizione, disegni in tonalità del marrone a sfondo pontremolese che rivelano la mano artistica dell’autore, un bene di famiglia ereditato dal figlio Alessandro.
Maria Luisa Simoncelli