Nel Paradiso di Dante la gioia di operare  nel bene e nell’amore

Oh abbondante grazia ond’io presunsi
ficcar lo viso per la luce eterna

L’Accademia della Crusca ha coniato per il 25 marzo il vocabolo Dantedì (analogia con i giorni della settimana costruiti su Giove, Marte o Venere); è una giornata per onorare l’altissimo poeta in cui gli uomini tutti possono trovare se stessi; la Commedia di Dante è inesauribile materia di riflessione, è stimolo a spendere bene l’esistenza nella prospettiva dell’eterno; il pensiero, le intuizioni teologiche si risolvono in fervore di immaginazione, in visioni poetiche di cose che non si vedono, in figure, in trionfo di luce, di sfere celesti, di musica e di gioia.
Il “poema sacro” è la narrazione di un viaggio simbolico del pellegrino Dante che ha compiuto l’intera odissea cristiana: viene dall’Inferno, immaginato come luogo fisico, voragine di odio, urla e torture; salvo dalla dannazione eterna, si purifica dai dubbi e dagli errori inerpicandosi sulla ripidissima montagna del Purgatorio, recupera la condizione di innocenza del paradiso terrestre ed è “puro e disposto a salire a le stelle”. Il Paradiso è la meta del viaggio, Dante vive l’esperienza esistenziale più alta dell’uomo, non con l’estasi che porta fuori di sé, ma tutto intero ancora nella condizione terrena, impegna ragione, fede, cultura, amori, attività civile, scienza, dottrina e infine la grazia divina lo porta dentro la luce di Dio.

Dante Alighieri (1265 – 1321)

Non compie il “sublime peccato” (così B. Croce) di Ulisse di voler conoscere da solo il mistero del soprannaturale, ma in una proiezione trascendente vive il desiderio di Dio creatore e ordinatore provvido del “gran mar dell’essere”, che è cosmo, non caos o combinazione casuale di fenomeni. Dante arriva a vedere Dio e lo canta in sublime creazione poetica.
Guidato dalla ragione e dalla fede “sostanza di cose sperate”, il suo vedere si acuisce e si congiunge con l’immutabile luce di Dio, salendo nella scansione dei nove cieli che sempre più veloci e lucenti ruotano intorno alla terra rocciosa e immobile nel punto più basso dell’universo. La mirabile visione paradisiaca presenta i beati nei singoli cieli, distinti secondo le attitudini personali e il grado di merito, e si conclude col rivederli tutti insieme nel cielo empireo, il decimo, disposti come a formare una “mistica rosa” i cui petali si snodano come gradini di un anfiteatro e al centro sta Dio.
Non c’è più movimento, metafora del desiderio, perché tutto è stato raggiunto e compreso. A garanzia che è stata reale la visione di Dio c’è la gioia che Dante prova anche solo nel ricordar quanto è rimasto nella sua memoria, che è poco rispetto all’esperienza vera che si è compiuta nel suo sentimento. Guidato da Beatrice beata e bella e dal mistico San Bonaventura, è portato alla vista di Dio con l’aiuto di Maria, luce e fontana vivace di speranza, invocata con la più bella preghiera mai scritta sulla Madonna, unica mediatrice degli opposti rilevati dagli ossimori “vergine madre, figlia del tuo figlio, umile e alta”.
Dio è luce e gli occhi di Dante sempre meglio percepiscono che il globo luminoso si distingue in tre cerchi e quello intermedio congiunge alla forma geometrica quella umana, sono evidenti i riferimenti simbolici alla Trinità (Dio Padre capisce ed è capito dal Figlio che è Logos in legame d’amore con lo Spirito Santo) e al mistero dell’Uomo- Dio. La mirabile visione, di cui si invoca di mantenere perseveranti gli effetti di tanta grazia, porta appagamento interiore al desiderio e alla volontà di Dante.
L’alta fantasia, che ha donato all’umanità l’immensa bellezza e l’intensità educativa della Divina Commedia, si conclude in un fulgore di beatitudine esistenziale donata dall’Amor che muove il sole e l’altre stelle: è Dio l’origine e la sintesi di tutto. Tutta la terza cantica è però attraversata dal dramma dell’insufficienza della parola ad esprimere in modo adeguato l’intenzione dell’artista, Dante per farsi capire ricorre spesso a similitudini con cose e gesti concreti e quotidiani; per capire l’unione di natura umana e divina in Cristo la parola è “corta” come quella “d’un fante che bagni ancor la lingua a la mammella”, immagine intima e domestica che sta bene accanto a tanta elevata materia di canto poetico.
Il viaggio immaginato nell’oltremondo cristiano Dante finì di scriverlo negli stessi giorni in cui portò a termine la sua esistenza terrena, la malaria lo stroncò nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321 a Ravenna ospitato dai frati francescani. Non è arrivato a noi nessun scritto autografo e non si sa ricostruire come sia stato possibile. Quando morì non si trovavano gli ultimi tredici canti del Paradiso, furono poi rinvenuti per sollecitudine dei frati e dei figli di Dante Jacopo e Pietro che insieme alla sorella suor Beatrice si trovavano a Ravenna, costretti anch’essi all’esilio.
Il figlio Pietro fece un primo commento al capolavoro del padre di cui già si parlava in tutta Italia. Noi conosciamo oltre seicento codici, molti impreziositi da miniature e glosse, trasmessi a mano prima dell’invenzione della stampa nel 1453, questo dato indica che la Commedia piacque molto a lettori di ogni ceto sociale, anche al popolo che non sapeva leggere, ma chiedeva di ascoltare i canti, lo fece ben presto il Boccaccio a Firenze. La poesia è sempre salvezza, anche nel momento presente.

Maria Luisa Simoncelli