Domenica 14 febbraio – VI del tempo ordinario
(Lv 13,1-2.45-46; 1Cor 10,31-11,1; Mc 1,40-45)
Partire da un “se” carico di attesa e da un desiderio gravido di speranza, queste le mosse della conversione a umanità nuova che il Vangelo propone.
Nel cuore di quella solitudine scendono in profondità le parole del lebbroso. Gesù si lascia toccare il cuore. Sceglie di non rimanere indifferente. Sceglie di accogliere il rischio. Questo il vero miracolo. Questa la vera sfida della fede. Accettare il rischio che l’altro entri nella mia vita sconvolgendomi. Ben prima del tocco divino del Maestro è il lebbroso a toccare. Scende in profondità e porta a compassione Gesù. Sentimento materno: la sensazione che l’altro sia entrato così profondamente da essere riuscito a prenderci un pezzo di vita. Gesù è un cuore contaminato dalla passione per l’uomo. Un cuore contaminato dal dolore. Un cuore contaminato dalle lacrime. Ecco perchè la mano non può che annullare le distanze: come una carezza, come il gesto visibile di un contatto invisibile, come a sancire la contaminazione d’amore già consumata nei cuori.
Sì, dice Gesù, prendo la tua storia, il tuo dolore, persino la tua emarginazione su di me. Sono pronto a pagare il conto altissimo dell’amore. Con la mia solitudine. E mentre il lebbroso guarito cantava la sua umanità ritrovata scendendo in città, Gesù non poteva più entrare pubblicamente in città: l’ombra lunga del Calvario inizia a disegnare i contorni di una fine. Mentre il Vangelo di oggi ci ricorda che amare significa non aver paura di lasciarsi sconvolgere la vita. Le parole finali di Gesù “lo voglio, sii purificato” servono solo a sancire il miracolo. O forse, a sottolineare i tre luoghi che guariscono in profondità l’uomo, che lo guariscono da tutti quegli isolamenti che sono le nostre lebbre. Tre sono i luoghi simbolici della ricomposizione dell’umano: l’ascolto, il contatto umano e la parola. Senza queste tre esperienze: qualcuno che si compromette per la nostra felicità, qualcuno che ci accarezzi il viso e ci asciughi le lacrime, qualcuno che abbia piacere di regalarci parole noi siamo costretti a una lebbra disumanizzante, a un’esclusione dolorosa dalla vita stessa.
Poi Gesù chiede due cose: il silenzio e una strada. Il silenzio, richiesta apparentemente impossibile per chi viene guarito eppure. Eppure Gesù lo dice chiaramente. Probabilmente perché solo nel silenzio l’uomo guarito avrebbe saputo scorgere tutti gli effetti del miracolo. Che non è solo la guarigione da una malattia. Il silenzio come spazio per lasciar dilatare la consapevolezza di un Amore che ha il potere di rimodellare la vita interamente. Il silenzio come traccia di solitudine da conservare, luogo non più imposto ma scelto, per essere davanti a se stessi e a Dio senza finzioni.
E poi una strada. Doveva andare dai sacerdoti il lebbroso. Per trasformarli. Non più esperti nella diagnosi della malattia ma uomini capaci di riconoscere l’Amore di Dio in azione. Nel tocco scandaloso e liberante di Gesù. Nel Dio compromesso con l’uomo, nel Dio emarginato per amore. Il Dio della periferia. Il Dio che trasforma il deserto in una fonte d’acqua: e venivano da lui da ogni parte.
don Alessandro Deho’