Nel territorio di Mulazzo questa piccola comunità vive in una delle valli più fertili e dal clima più mite di tutta la Lunigiana. La presenza di incisioni rupestri preistoriche e il ritrovamento di tre statue stele testimoniano quanto antica sia qui la presenza dell’uomo
All’estremità sud-occidentale del territorio comunale di Mulazzo, la frazione di Canossa si trova a mezza costa tra i borghi di Castevoli e di Lusuolo, in una delle valli meglio esposte e più fertili di tutta la Lunigiana, nota per i terrazzamenti coltivati a vigneti e oliveti. Al piccolo gruppo di case strette attorno alla chiesa parrocchiale di San Michele Arcangelo (ricordata negli Estimi del 1470-1471 e dipendente dalla Pieve di Castevoli) si aggiungono altri piccoli nuclei sparsi nella campagna. Tra questi anche Campoli, con il piccolo oratorio dal campanile a vela e intitolato alla Presentazione della B. V. Maria.
Pur essendo limitrofi a Castevoli e non troppo lontani dall’antica Pieve, Canossa con l’ampio territorio circostante nel Medioevo dipendeva dai marchesi Malaspina di Lusuolo, ed era la porzione più a monte del feudo. Qui la presenza dell’uomo è antichissima come testimoniano alcuni importanti ritrovamenti di origine preistorica: tre statue stele e centinaia di incisioni rupestri.
La stele “Canossa” è venuta alla luce nella primavera 1972 in loc. “al Monte”, nei pressi del cimitero, e ha una caratteristica quasi unica nel suo genere: il pugnale non è sguainato a lama nuda bensì è inserito nel fodero. Un’altra, denominata “Campoli”, in ordine di tempo è la quarta rinvenuta delle 83 statue stele, la prima della Lunigiana interna. Non è noto il periodo nè il luogo preciso dove giacesse – che si suppone tra Campoli e Canossa – ma la grande pietra squadrata, in arenaria, era poi stata collocata a fianco dell’ingresso del piccolo oratorio, esposta alla vista e di frequente veniva utilizzata per affilare gli strumenti da lavoro.
Ora si trovano entrambe a Pontremoli nel Museo delle Statue Stele nel castello del Piagnaro; a Campoli è stata collocata una copia.
Ma se le statue stele di Canossa e Campoli sono conosciute e ammirate, ben poco nota ai più è la cosiddetta “Grotta di Diana”, un piccolo anfratto non troppo lontano da Canossa ma ben nascosto tra la fitta vegetazione dei boschi a nord del paese. L’abbandono del territorio da parte dell’uomo negli ultimi anni ha reso difficile l’accesso alla zona del sito, ai margini dei pochi sentieri ancora percorribili. Ma chi, grazie a qualche “guida” locale, riesce ad affacciarsi a quella massiccia formazione di roccia che si apre a picco sulla valle gode di una visuale unica.
Da lassù lo sguardo spazia a 180 gradi dalla Cisa alle Apuane: sotto scorre la Magra e, al di là, è il centro di Villafranca; poi su fino ai paesi del Bagnonese e al crinale appenninico con tutti i principali passi ben visibili. Su questi massi, sul finire del III millennio a.C., l’uomo dell’Eneolitico iniziò a tracciare enigmatiche incisioni rupestri, proseguendo poi nell’opera per molte generazioni.
Coloro che – sfidando la sorte su una passerella di fortuna realizzata alcuni decenni fa con piccoli tronchi di castagno, molti dei quali in precario stato di conservazione e dunque esponendosi a rischio caduta nella profonda scarpata sottostante – sono entrati nell’angusto anfratto hanno potuto ammirare centinaia di incisioni, rettilinee o a coppella: un intreccio di trame e disegni, anche con piccole figure a forma umana, che copre buona parte delle pareti dei due brevi e stretti cunicoli e che resta un mistero sul quale gli studiosi hanno iniziato a confrontarsi alla metà degli anni Settanta.
Tra le ipotesi formulate anche quella che il luogo fosse un formidabile punto di osservazione e che, in qualche periodo della lunga frequentazione del sito, le incisioni possano avere avuto una relazione con i siti geografici e la valle che si apre di fronte. Quattro degli allineamenti tracciati sui massi punterebbero sulle cime dei monti posti all’orizzonte: l’Aquilotto (due), il Brusa e il Sillara; altri tre avrebbero a riferimento i passi dell’Aquila, di Badignana e quello nei pressi del Monte Matto.
Di certo i ricercatori, dopo l’accurato rilievo delle incisioni, hanno trovato forti analogie tra alcune delle figure tracciate nella “Grotta di Diana” e quelle della Valcamonica. Una particolarità del sito è che mancano del tutto i simboli moderni, come scritte in latino e croci di cristianizzazione che spesso in luoghi di questo genere si sovrappongono alle incisioni preistoriche; segno, forse, che da un certo periodo in poi il sito è stato abbandonato e se ne è persa la memoria. Tracce che emergono da un passato lontano che riversa oggi su di noi l’eredità di un popolo che qui viveva cinquemila anni fa e che ci ha lasciato un messaggio misterioso ed emozionante.
(Paolo Bissoli)