
Solo quando sarà pronto il vaccino anticovid, potremo tirare un sospiro di sollievo. Stiamo aspettando con ansia l’annuncio liberatorio per poter proclamare la fine del flagello. E’ pur vero che molti già da tempo si sono liberati dalle remore della paura e se ne vanno sicuri senza mascherine e senza rispetto delle distanze. Nemmeno la voce degli esperti è inequivocabile: alcuni temono una seconda ondata, mentre altri fanno fatica a usare la parola prudenza.
Comunque sia, il microbo non è scomparso e qui non interessa sapere quando sarà celebrato, se ci sarà, il giorno della vittoria. Sicuramente non ci troviamo più nell’incubo dei mesi passati, ma non abbiamo nessuna certezza per il futuro. Quando i flagelli che si abbattevano sugli uomini erano considerati un segno dell’ira divina, la fine era un atto di riconciliazione con il creatore. La narrazione del momento in cui l’epidemia perdeva forza, aveva sempre un carattere edificante.
Oggi molte cose sono cambiate e pretendiamo che sia la scienza a darci risposte rassicuranti. La peste manzoniana termina, come si sa, con l’acquazzone che porta via il contagio. Simbolicamente l’acqua è l’elemento fecondatore capace di dare nuova vita. Molti secoli prima di Manzoni, la Legenda aurea di Iacopo da Varazze, dotto domenicano del Duecento, racconta con ingenua semplicità i prodigi celesti che segnavano la fine delle epidemie.
Nel VII sec. Roma e Pavia sono flagellate da una pestilenza così feroce che “i superstiti a stento bastavano a seppellire i morti”. Il terrore era diffuso da un angelo malvagio: quando colpiva una casa “tutti quelli che vi stavano dentro morivano”. Ebbene, come viene vinto lo sterminio?
Per ispirazione divina una persona nella longobarda Pavia rivela che bisogna costruire un altare a San Sebastiano. Da Roma, su richiesta del vescovo Damiano, arriva una reliquia del martire che viene esposta su un altare appositamente costruito in San Pietro in Vincoli. L’epidemia cessa in modo miracoloso. Il brano della Legenda è citato da A. Camus ne La peste. La predica del gesuita Paneloux nella cattedrale di Orano a me pare che riveli un fanatismo assente nella narrazione di Iacopo. Solo dopo aver assistito alla morte di un bambino innocente il predicatore focoso cambierà atteggiamento.
Tutto questo ci rivela la complessità del rapporto uomo–Dio nel tempo delle peggiori calamità. Spingiamoci ora al 590. Imperversa a Roma e in Italia la lues inguinaria terribile peste portata dall’Egitto. Papa Pelagio II muore colpito dalla malattia. “Poiché la chiesa di Dio non poteva rimanere senza guida, il popolo unanime elesse Gregorio, benché tentasse con tutte le sue forze di rifiutare”.
Il racconto di Iacopo è avvincente. Durante una processione in un’ora muoiono novanta persone. Gregorio, nonostante la fuga dalla città nascosto in una botte, viene ritrovato dal popolo e consacrato sommo pontefice. Per far cessare la pestilenza, papa Gregorio Magno stabilisce di portare in processione lungo le mura l’immagine della Vergine “che si dice essere stata dipinta da Luca, che per arte era medico e pittore insigne”. Al passaggio della effigie l’aria acquista “una incredibile serenità e purezza”. Gli angeli cantano il Regina coeli. Gregorio vede infine “sul castello di Crescenzio un angelo del Signore che, dopo aver pulito la spada insanguinata, la riponeva nel fodero”.
La pestilenza è finita. Il castello si chiama da allora Castel Sant’Angelo. La protezione di Maria, Salus populi romani, la Vergine dipinta da Luca, è stata recentemente invocata da papa Francesco.
Pierangelo Lecchini