La pandemia e il sottile crinale tra pessimismo e consapevolezza

Intervista a Guido Formigoni, docente all’Università Iulm di Milano

Il prof. Guido Formigoni
Il prof. Guido Formigoni

Non è facile prospettare cosa cambierà nel mondo, in termini politici e sociali, al termine della pandemia. Ad affermarlo è Guido Formigoni, professore di storia contemporanea all’Università Iulm di Milano, che aggiunge: L’emergenza favorirà alcune tendenze sociali e politiche prevalenti, ma non certo delle piste obbligate: ci troveremo di fronte a bivi tra cui scegliere. 62 anni, studioso della storia del movimento sociale e politico dei cattolici, già presidente di Città dell’uomo, l’associazione di cultura politica fondata da Giuseppe Lazzati, su una cosa il professor Formigoni – intervistato ai margini di una videoconferenza intitolata “Democrazia e società dopo la pandemia” – non nutre dubbi: “ci sarà la tendenza a chiedere più intervento del potere pubblico”.

Assisteremo dunque al tramonto del “più mercato, meno Stato” che nei decenni scorsi aveva indicato la via verso la riduzione dell’intervento pubblico e l’affermazione delle forze spontanee dell’economia e della società?
La fiducia nelle capacità del mercato si è molto affievolita già dalla crisi finanziaria del 2008, dalla quale sono usciti i paesi, come gli Stati Uniti o la Cina, protagonisti in modo diverso di un massiccio intervento pubblico. La maggior richiesta di sicurezza e protezione oggi è del tutto evidente.

Che connotati assumerà il nuovo protagonismo statale?
Difficile predirlo. Certamente i problemi globali del nostro tempo possono essere risolti solo da grandi Stati, oppure dall’agire congiunto di paesi più piccoli, è il caso della UE, laddove le forme di cooperazione non siano ostacolate dal ritorno del nazionalismo.

Il crescente nazionalismo si alimenta anche dell’avversione alla globalizzazione, peraltro già contestata da diversi decenni. La pandemia di questi mesi in quali direzione potrebbe condurre la dicotomia tra “locale” e “globale”?
Ci troviamo di fronte ad un bivio. La fase storica che stiamo vivendo potrebbe condurre ad una globalizzazione “rivisitata”, in cui i governi regolano alcuni suoi aspetti critici, come la libertà dei movimenti di capitale o le catene produttive delocalizzate, e rafforzano la cooperazione, ad esempio in campo medico, come è necessario fare in questa fase. Al contrario potrebbe rafforzarsi un localismo angusto che, privo di proposte efficaci, si alimenti individuando nemici e offrendo soluzioni semplicistiche a problemi complessi.

Una semplificazione è quella secondo la quale i regimi autoritari stanno avendo maggiore successo nel gestire l’emergenza sanitaria, dalla Cina, alla Russia, fino ai pieni poteri di Orban in Ungheria. L’epidemia determinerà una crisi della democrazia?
Il tema della crisi della democrazia è in agenda da almeno 30 anni. La tendenza a rafforzare i poteri decisionali dei governi rispetto alle prerogative della rappresentanza parlamentare ne sono un sintomo.

Sta dicendo che nell’attuale fase emergenziale dove occorre “fare presto”, l’autoritarismo dilagherà?
Non è detto. Fino ad ora, almeno in Europa, le forze sovraniste che propongono modelli autoritari si sono rafforzate in modo preoccupante ma non hanno sfondato: oltre un certo limite, proporre soluzioni semplicistiche a problemi complessi come l’immigrazione o la globalizzazione, non è più convincente.

Il maggiore intervento pubblico avrà effetti anche nella vita quotidiana delle persone. Il dibattito sulle app anti-contagio mostra il dilemma tra domanda collettiva di sicurezza e le libertà individuali come il diritto alla riservatezza: esiste un equilibrio tra le due istanze?
La tecnologia, con i vantaggi che porta, sembra neutrale, ma in realtà determina un grande controllo sociale. Potrebbe affermarsi il principio di tutela del bene collettivo, con la relativa compressione delle libertà personali oppure, un ripensamento del concetto di libertà, coniugato non solo in chiave individualista, come è stato fino ad oggi, ma pensando anche al bene altrui.

Ripensare il tema della libertà diventa quindi una questione educativa.
Esattamente. Se vogliamo evitare il dilagare dell’autoritarismo e promuovere la democrazia, occorre ripensare la libertà in termini di responsabilità verso gli altri. Educare ad una libertà responsabile è una grande questione popolare, che investe tutti, Chiesa compresa. Tralasciare questo impegno significa favorire le tendenze repressive.

Nel frattempo la pandemia ha fatto riemergere nell’immaginario collettivo sentimenti rimossi negli ultimi decenni, come la vulnerabilità e la paura.
La visione ottimista del futuro si è basata sulla certezza che ogni generazione avrebbe migliorato le proprie condizioni di vita rispetto a quella precedente e sui progressi scientifici che hanno consentito di esorcizzare molte paure, e che hanno dato il senso di un controllo totale sulla natura. La prima certezza è tramontata da tempo, la seconda è messa a dura prova dall’epidemia.

L’epoca dell’ottimismo che ha contraddistinto il dopoguerra per lungo tempo è al termine?
La pandemia ci pone su un crinale sottile. Da un lato, l’umanità potrebbe reagire al tramonto delle certezze sviluppando una forma di pessimismo antropologico, con la connessa caduta in una spirale di autocommiserazione e di passività, che favorirebbe rivendicazionismo e vittimismo. Oppure potrebbe affermarsi una risposta consapevole al cambiamento.

Quale?
Maturare la consapevolezza di un limite: non ci siamo dati la vita da soli, ma siamo tutte e tutti figlie e figli, elemento che permetterebbe di riscoprirci sorelle e fratelli e quindi persone pronte a costruire assieme il destino comune della nostra società.

(Davide Tondani)