Senza nostalgie monarchiche – la repubblica democratica è in assoluto la migliore istituzione, pur non potendo essere perfetta – è doveroso ricordare che duecento anni fa, il 14 marzo 1820, nasceva Vittorio Emanuele di Savoia primo re d’Italia, unificata dopo una travagliata frammentazione durata ben oltre un millennio.
Nel IX e X secolo era stata tentata la formazione di un regno d’Italia indipendente e unito con Guido di Spoleto, Berengario I del Friuli e Ugo di Provenza, ma non riuscirono ad imporsi alla miriade di tanti poteri locali che durarono fino al 17 marzo 1861 quando un decreto di un solo articolo riporta Il re Vittorio Emanuele assume per sé e suoi successori il titolo di re d’Italia.
Era ora! Il ritardo di tanti secoli nel processo di unificazione ha lasciato il segno nell’identità del popolo italiano, che spesso dimostra poco senso civico e poco senso dello Stato, anche se riscattato dal generoso volontariato e da momenti “epici” di resistenza. Da tempo si era formata l’Italia della lingua, della cultura e dell’arte, ma non quella politica. Il fermento del Romanticismo maturò l’esigenza ormai inderogabile di liberare l‘Italia di “Antico Regime” e darle un’istituzione monarchica costituzionale con un Parlamento eletto, anche se a suffragio censitario e quindi rappresentativo di un ristretto ceto nobiliare e borghese.
Vittorio Emanuele era già re di Sardegna dal 1849 dopo l’abdicazione del padre Carlo Alberto. Mentre gli altri sovrani avevano presto revocato gli Statuti concessi d’urgenza sotto la pressione dei tumulti rivoluzionari del 1848, il Piemonte mantenne lo Statuto, che diventerà la Costituzione del regno d’Italia fino alle leggi fascistissime del 1926. Vittorio Emanuele seppe scegliere un grande primo ministro, Camillo Cavour, lo lasciò lavorare per un governo liberale e riformatore e per tessere l’alleanza col II Impero francese nella II guerra d’Indipendenza del 1859 che porta l’annessione della Lombardia al Piemonte dopo le vittorie militari a Solferino e San Martino, successi che generano un grande moto popolare disciplinato dalla legalità dei plebisciti che l’11 e 12 marzo 1860 votano l’annessione al Piemonte dei ducati di Parma e Modena e del granducato di Toscana.
Tra maggio e settembre ci pensa Garibaldi coi suoi Mille a consegnare a Vittorio Emanuele II (non I, per soddisfare i conservatori piemontesi e placare gli ambienti di corte) il Regno delle Due Sicilie. Mancano Lazio e le “Tre Venezie”. Il re aspira ad essere soprattutto re degli italiani in uno sforzo congiunto di iniziativa diplomatica e rivoluzionaria.
Lo storico Giovanni Spadolini gli riconosce “un sentimento di italianità che era parte viva di un temperamento impulsivo e passionale” con un’apertura alle relazioni umane che i Savoia non conoscevano. Re fedele alla Costituzione ma con una nota di potere personale, democratico anche in certi tratti psicologici, negli eccessi di carattere e d’amore, “temperamento militare, aggressivo, uomo di pochi studi, di scarse letture ma dotato di sano buon senso, rapida intuizione, accorto calcolo”.
La spedizione del settembre-ottobre1860 delle Marche, Umbria e del Mezzogiorno, guidata dal re (che portò con sé la “bella Rosina” amante), fu messa in atto in fretta per impedire che Garibaldi arrivasse a Roma e formasse l’Italia “una, libera, indipendente, repubblicana” del progetto mazziniano. L’unificazione italiana si fondò sulla semplice estensione degli ordinamenti amministrativi e istituzionali dello Stato sardo, con pieno rispetto dei rapporti di proprietà esistenti.
Il re affrontò i problemi (mafia compresa) e le enormi difficoltà di elaborare una linea di sviluppo economico di un paese di diverse esigenze e caratteristiche sociali, arretrato. Forti le tensioni; una sostanziale guerra civile fu quella generata nel Sud dalla delusione dei contadini che avevano sperato di formare una promessa piccola e media proprietà spezzando i latifondi e le terre dei demani comunali. Insorsero, li chiamarono briganti, come se fossero criminali comuni, furono repressi brutalmente. Il regno d’Italia nel 1866 si ingrandì col Veneto ottenuto con la terza guerra contro l’Austria e nel 1870 portò la capitale a Roma e la conquista del Lazio. La fine del potere temporale del papa provocò la complessa “questione dell’opposizione cattolica”. L’Italia fece il decollo industriale circoscritto quasi tutto al Nord e favorito da politiche protezionistiche che danneggiarono i contadini del Sud costretti ad emigrare.
Gli investimenti maggiori furono nelle infrastrutture, soprattutto le ferrovie, con impiego di capitali stranieri e delle rimesse degli stessi emigranti. Il re firmò la legge dell’obbligo di almeno due anni di scuola, la riforma che allargava il diritto di voto. Ottenne il pareggio del bilancio con forte aumento delle non eque imposte indirette. Morì nel 1878, il suo monumento funebre è l’imponente Vittoriano a Roma: l’appellativo di “re galantuomo” nel complesso è adeguato.
Maria Luisa Simoncelli