
Il 31 gennaio un vero bagno di folla per l’epilogo della sfida
“Tanto di cappello…” si diceva un tempo quando si voleva manifestare il proprio consenso ad un’azione degna di lode e, proprio quest’anno, non si poteva individuare metafora più appropriata per esternare la comune soddisfazione per un falò di San Geminiano sicuramente all’altezza della tradizione. Per capire, però, il senso della condivisione, occorre partire da lontano, ovvero entrare nello spirito della manifestazione in quei passaggi intermedi che non sono solo il corollario indispensabile per raggiungere il risultato, quanto la presa d’atto di un impegno di gruppo di cui l’epilogo è solo il momento conclusivo, qualunque sia il significato estetico che riesce ad ottenere.
Chi come noi quasi tutti i giorni passa il ponte di Zambeccari un po’ per impegni, un po’ per abitudine, nei giorni precedenti la festa del patrono aveva di necessità l’occhio concentrato sull’animazione che caratterizzava il grande spazio sotto il ponte della Crḗŝa. Così, vedere l’immane catasta ergersi lentamente per la frenetica azione di una miriade di fantasmi biancorossi, nonostante la stagione non fosse delle più stimolanti, faceva crescere dentro non solo il desiderio di gustare lo spettacolo, ma la voglia di entrare nel significato di tanto impegno, di comprendere il senso di tanta fatica che, ora, solo ora, trovava la sua consacrazione nel passaggio di mano dei fasci di ulzi raccolti in mesi di lavoro nel folto dei boschi ed ora finalmente capaci di essere il tramite per realizzare un desiderio.
Confessiamo di avere provato un po’ di invidia, non certo per la fatica immane che ognuno faceva, piuttosto per non essere parte attiva dell’impresa, perché il tempo impietoso aveva messo fine da tempo ad ogni velleità. Allora, trovarsi sul greto del Verde, nella sera fatidica dell’accensione, è stato quasi un gesto dal sapore ancestrale, quasi azione indispensabile per poter essere parte di una comunità che esige di sostenere le sue tradizioni e da esse trarre il senso dalla propria identità.
Il consumarsi delle ritualità, in mezzo, una volta di più, a tante persone salite a Pontremoli solo per gustarsi per la prima volta l’evento e leggergli negli occhi lo stupore entusiasta per qualcosa di inusitato, tale da riportargli alla mente eventi consimili della loro storia stranamente trascurati, ha dato un sapore ancora più incredibile all’ennesima esperienza esaltante che, forse, solo noi siamo in grado di gustare appieno, anche nel piacere degli altri.
Qualcuno dirà… e il cappello? Ebbene, non fosse stato per un refolo fastidioso, forse lo spettacolo sarebbe stato proprio perfetto e “il cappello” della pira, isolato dal vento per bruciare più lentamente del necessario è servito di certo ad allungare lo spettacolo, dare spazio a chi capite di consolarsi per identica sorte della loro vicenda e chiudere il conto a pari e patta. Almeno, la sfida è rinviata e con essa tutti i sensi di una disfida che trova il suo valore più concreto proprio nella ricerca esasperata dei peli nell’uovo, come recita un altro detto tanto abusato.
Avanza, per una lettura completa dell’intera vicenda, che “accende” in tutti i sensi il gennaio pontremolese, lo stupendo ricordo, gestito con grande maestria e ampiamente condiviso dalle parti in causa, del personaggio più rappresentativo della competizione, quell’Angiolino “Pedrola”, la cui immagine non si è certo spenta coll’estinguersi delle due pire, ma ha aleggiato e continuerà ad aleggiare nel tempo nel cielo dei due fiumi, per gustarsi quello spettacolo che solo la sua esperienza ha saputo rendere tanto esaltante e che i suoi eredi, su entrambi i fronti, hanno dimostrato di avere assimilato quasi alla perfezione, consapevoli che, ad ogni appuntamento, “Lui” sarà lì a dare i suggerimenti necessari per fare sì che l’evento non tradisca le attese, ma rinnovi negli anni il desiderio di proseguire per fare sempre meglio, al di là delle bizze della stagione che, comunque vada, non l’avranno mai “di vinta”. (lb)