Le spezie per millenni sono state necessarie, dovevano dare sapore ai cibi altrimenti immangiabili perché il sistema di cottura rimasto sempre uguale nella sua semplicità li rendeva insipidi. Le vivande quasi sempre subivano doppia cottura, bollite e poi messe su fiamma viva bruciavano o restavano quasi crude, un po’ più attenta era la cottura allo spiedo.
Pepe, cannella, chiodi di garofano, noce moscata, zafferano hanno riempito di aromi e sapori il pasto quotidiano dei ricchi e dei poveri, erano per tutte le tasche.
Orazio Olivieri, autore del saggio L’età delle spezie. Viaggio tra i sapori dall’antica Roma al Settecento (Donzelli, 2018) – finalista al Bancarella Cucina 2019 – è docente universitario di qualità nell’agroalimentare, responsabile di tutela e valorizzazione di prodotti tipici e marchi collettivi geografici, sue le pubblicazioni Il lardo di Colonatta e Lo zafferano di San Gimignano: non solo di provenienza da luoghi dell’Oriente o dell’Africa, le spezie sono anche europee. Ha raccolto, oltre i soliti ricettari, molte fonti spesso trascurate ed è arrivato a tracciare una storia approfondita che demolisce un diffuso pensiero che le spezie siano stata merce superflua usata solo dai ceti sociali elevati per ostentare prestigio e potere. Ma arrivò il momento che le spezie non piacevano più come prima: fu attorno alla metà del Seicento per due fattori determinanti: prima le mutate condizioni dei commerci marittimi e le scoperte geografiche, dopo “la rivoluzione dei fornelli”. Quando nel 1498 Vasco da Gama trova la via dell’India doppiando il capo all’estremo sud dell’Africa, il Portogallo diventa egemone nel mercato delle spezie acquistate in grande quantità e mette in allarme Venezia che aveva da secoli il controllo dei tre quarti di tutto il commercio europeo, perde molti affari, il valore economico delle spezie passa agli olandesi con la costituzione della Compagnia delle Indie orientali, stesso percorso fa l’Inghilterra e a Venezia restarono solo le briciole. In Francia e prima in Italia si andò sviluppando un modo di cucinare più autentico e meno aggressivo con uso più moderato delle spezie, spesso sostituito dal “mazzetto aromatico” di cipolle, prezzemolo e timo, privilegiando gli aromi discreti e la naturalità degli alimenti. Il nuovo gusto nell’alimentazione è reso possibile dalla più diffusa conoscenza scientifica sulle proprietà di piante, erbe e radici divulgata a mezzo stampa e soprattutto dai nuovi strumenti di cottura, affermati prima fra i nobili e i borghesi arricchiti e poi diventati di uso comune: sono i fornelli, motori silenziosi di grande cambiamento: permettono una pluralità di focolai anche di diverse dimensioni: il cuoco può dedicarsi a più preparazioni fra loro complementari, controlla estensione e intensità della fiamma, registra le cotture da quella lenta a quella rapida e viene favorita la creatività in cucina esaltando le caratteristiche specifiche dei prodotti alimentari e le preparazioni raffinate di salse. Nel processo di valorizzazione dei sapori si colloca anche l’uso di tè, caffè e cioccolata, nuove bevande di origine esotica che in molte regioni si affermano più della birra e del vino. Le spezie esotiche non tramontano del tutto ma non sono le necessarie regine di un tempo, si sono riciclate accompagnando i nostri cibi e conservando quel certo fascino rimasto dalla gloria del passato. Olivieri ha illustrato la storia delle spezie con molta accuratezza storica, molta bibliografia, vigore critico, passaggi ironici e ci fa condividere il piacere del racconto.
Maria Luisa Simoncelli