L’esultanza per l’armistizio di Villa Giusti (3 novembre 1918) e la successiva cessazione delle ostilità della Grande Guerra è di breve durata. Nemmeno il tempo di tirare un sospiro di sollievo e i problemi si presentano in tutta la loro gravità. Fra i più seri, quello del rimpatrio dei prigionieri italiani dai campi nemici. Giovanna Procacci ospita nel libro Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra (Bollati Boringhieri) testimonianze allucinanti.
Sei giorni in treno senza mangiare verso Pontebba: è l’odissea, non delle più tragiche, di un gruppo internato in Austria. Oltre frontiera, rovine di paesi deserti: punti di raccolta inesistenti o introvabili. I carabinieri, incontrati per caso, sbagliano strada. Per evitare una sosta notturna in trincea fra bombe a mano e lezzo di cadaveri, il viaggio continua a piedi verso un campo sulla destra del Piave. Qui 9.000 prigionieri dormono e fanno i loro bisogni all’aperto.
Nuova fuga sotto la neve. Treviso, poi Magliano. Infine, trasferimento in treno fino al campo di concentramento di Carpi. L’Austria, allo stremo, aveva lasciato liberi 400.000 soldati detenuti: il rientro dei prigionieri dalla Germania viene ritardato perché una massa enorme già preme alle frontiere. Caos e disorganizzazione trionfano: eppure presentarsi alle autorità militari è obbligatorio. Molti, sbandati o analfabeti, non lo sanno e vagano storditi per le campagne.
A Trieste una nave con 5.000 uomini affamati non può entrare in porto. A Fiume e Trieste “migliaia e migliaia giacciono cenciosi, affamati, luridi sulla banchina” (p. 368). Non c’è assistenza e infuria anche l’epidemia di spagnola. Chi non è morto di fame e di malattie nei campi nemici, muore sulla strada del ritorno.
Godono invece di buona salute la burocrazia e l’ossessione per il rispetto di regolamenti e disciplina. La giustizia militare è inflessibile. Il prigioniero è un disertore o un sovversivo. Come tale deve rimanere nei centri di raccolta per essere processato.
Caporetto ha lasciato il segno: sotto accusa non sono i capi, ma i soldati. Una pazzia. Ancor più folle l’idea di spedire i colpevoli in Libia o nel Montenegro. Si teme il contagio delle idee. Intanto crescono odio e risentimento. L’ottusità dei capi militari e dei governanti è indescrivibile. Giornali come l’Avanti e Il Popolo d’Italia cavalcano la protesta, poi Mussolini, temendo un’alleanza fra giolittiani e socialisti, già contrari alla guerra, abbassa i toni e cambia strategia.
Il 7 dicembre Alessio, vicepresidente della Camera, scrive a Orlando deplorando il trattamento riservato a chi già ha subito sofferenze e conclude “…il ritardo del ritorno dei prigionieri nelle famiglie …provoca un vivo malcontento e persino avversione, anziché affetto verso il governo, che si appresta alle elezioni generali… occorre che il potere civile si faccia valere di fronte al potere militare”.
Quello dei prigionieri è un problema politico e di ordine pubblico. I campi vengono chiusi, ma i prigionieri devono tornare ai loro reparti. Molti finiscono in Macedonia e in Albania. Altri provvedimenti, come la concessione di indennità, trovano intralci burocratici.
La proposta di amnistia ha fieri oppositori. Poi nel 1919 il governo Nitti libera 40.000 detenuti su 60.000. I processi estinti sono 110.000 su 160.000. Gli animi, solo in parte, si placano. Ma i pregiudizi nei confronti dei prigionieri non muoiono. Molti, esausti e umiliati, preferiranno dimenticare la terribile esperienza della prigionia.
Pierangelo Lecchini