Attese e timori per la legge di bilancio 2019

Si avvicina il varo del documento che metterà alla prova le promesse elettorali

Tra un mese circa il governo Salvini-Di Maio presenterà la sua prima legge di bilancio. Ad oggi, complice un Documento di Economia e Finanza (che indirizza la politica di bilancio) approvato in primavera da un governo in carica per gli affari correnti e quindi privo di indirizzi politici, l’indeterminatezza dei provvedimenti che si vareranno è abbastanza scontata. Anche perché, come risaputo, quanto promesso in campagna elettorale da Cinque Stelle e Lega ha costi proibitivi.

Il governo Lega-M5S alle prese con le non facili scelte di natura economica. Il responsabile realismo del ministro Tria contro il facile populismo di Salvini e Di Maio. Intanto pare certo che non sarà ridotto l’enorme debito pubblico.

Il presidente del Consiglio dei Ministri, Giuseppe Conte
Il presidente del Consiglio dei Ministri, Giuseppe Conte

Gli scogli da superare appaiono due. Il primo è il vincolo esterno, quello dettato dall’agenda europea: limitare il rapporto tra disavanzo di bilancio e PIL del Paese. Una sorta di “celodurismo” antieuropeista ha fatto dichiarare a diversi parlamentari della Lega che il vincolo del 3% può anche essere superato, alimentando gli entusiasmi di quella parte dell’elettorato che vede nell’Europa la fonte di ogni male.
Il ministro dell’Economia, l’indipendente Tria, con buona dose di razionalità, non ha tardato a ricordare che un deficit oltre i limiti dei Trattati europei significherebbe dare il segnale di nessun impegno a ridurre il gigantesco debito pubblico italiano. Il conseguente aumento dei tassi di interesse che l’Italia dovrebbe corrispondere sul suo debito, ha dichiarato con efficacia il ministro, farebbe sì che la spesa pubblica aggiuntiva andrebbe a finire, anziché in servizi e infrastrutture, nelle tasche dei creditori.
Responsabile realismo, quello di Tria, contro il facile populismo di Salvini e adepti, che però fa a pugni con la mancata ufficializzazione della percentuale di deficit che il governo fisserà nella manovra: su quel numero, incomprensibile ai più, si scontreranno le istanze della realpolitik e quelle della propaganda. In tutto ciò, solo una cosa è già certa: la riduzione del debito pubblico, da 25 anni a questa parte enorme spina nel fianco del sistema Italia, non è nella priorità nemmeno di questo governo, nonostante il pericolo che la fine della politica monetaria espansiva della BCE possa riportare l’Italia sull’orlo di un nuovo baratro.
Gli altri due problemi di maggiore rilievo sono il reddito impropriamente chiamato “di cittadinanza” – sarebbe meglio chiamarlo “di inserimento”, essendo vincolato e non incondizionato – e l’imposta ad aliquota unica (flat tax) promessi da Salvini e Di Maio in campagna elettorale. Il leader pentastellato, per uscire dalla morsa mediatica della Lega-pigliatutto, lo ha promesso per il 2019.
Un azzardo, non solo per i costi faraonici: il programma-bandiera del M5S prevede che siano i Centri per l’Impiego a gestire il sussidio, vincolandolo alla partecipazione a corsi di formazione e all’accettazione di proposte di lavoro. Attualmente i Centri per l’Impiego sono sotto dimensionati per uno scopo così grande e le riforme degli ultimi anni ne hanno ulteriormente impoverito le capacità. In questo contesto, il reddito di inserimento sarebbe l’ennesima misura assistenzialistica. Meglio allora potenziare l’appena nato (ma privo di adeguate risorse) reddito di inclusione.
Per quanto riguarda la flat-tax, è stata promessa inizialmente per tutte le partite Iva. Tradotto: per le persone giuridiche, che già hanno l’aliquota unica dal 1973, in costante diminuzione, e per le persone fisiche che svolgono un’attività indipendente (lavoratori autonomi, professionisti, artigiani…). Se così sarà, qualcuno dovrà spiegare perché una persona fisica che svolge un lavoro dipendente debba pagare l’Irpef sulla base di 5 scaglioni, mentre una indipendente pagherà sulla base di una sola (bassa) aliquota. In attesa di chiarimenti si parla di riduzione dell’1% per il primo scaglione Irpef e di “pace fiscale” (uno dei tanti nomi che la politica dà ai condoni fiscali), senza però dire con quali risorse verrà finanziato tutto ciò (nuove imposte? tagli di spesa?) e soprattutto omettendo di dire che tutto ciò avrà effetto zero su disuguaglianza e povertà, le due grandi emergenze sociali del Paese fino ad ora tenute nascoste parlando solo di immigrazione e sbarchi di clandestini.

(Davide Tondani)