” Dio, oggi, si chiama Rohingya “

Il Papa in Myanmar e in Bangladesh. Lo storico viaggio apostolico di Francesco nei due paesi dell’Estremo Oriente: l’incontro con Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la pace nel 1991e quello con un gruppo di rappresentanti di uno dei popoli più perseguitati al mondo

46papa_rohyngiaGuarire le ferite, quelle visibili e quelle invisibili, con il balsamo della misericordia. La via della pace, della riconciliazione e del perdono passa da qui, ed è l’unico antidoto alla rabbia, alla vendetta e alla negazione dei diritti umani. Francesco, il primo Papa a recarsi in Myanmar – Paese con oltre 52 milioni di abitanti a maggioranza buddista, dove i cattolici sono l’1,7% della popolazione – non nomina mai i Rohingya. Eppure il primo gesto, a sorpresa, al suo arrivo a Yangon, in una giornata che avrebbe dovuto essere dedicata soltanto al riposo dal lungo viaggio, è quello di anticipare l’incontro con il capo dell’esercito, Min Aung Hliang.
“Si è parlato della grande responsabilità del Paese in questo momento di transizione”, dirà ai giornalisti il portavoce vaticano, Greg Burke, a proposito dell’incontro privato del 27 novembre, previsto invece per il 30. Il primo momento pubblico del 21° viaggio apostolico internazionale di papa Francesco, il 28 novembre, dopo l’incontro privato con i leader religiosi, è l’incontro con Aung San Suu Kyi, figlia del generale Aung San, segretario del Partito Comunista Birmano ucciso nel 1947 da oppositori politici, Premio Nobel per la pace nel 1991 e ora consigliere di Stato e ministro degli Esteri.

 

Non porte in faccia ma dialogo

46Papa_Bangladesh_Giovani“In quel momento, io piangevo. Facevo in modo che non si vedesse. Loro piangevano, pure”. Così il Papa nella conferenza stampa a bordo dell’aereo che lo riportava da Dacca a Roma, ha raccontato ai giornalisti il momento privato dell’incontro con i Rohingya. “Io sapevo che avrei incontrato i Rohingya”, ha specificato Francesco: “Non sapevo né dove né come, ma questo era condizione del viaggio, per me, e si preparavano i modi. Ma alla fine sono venuti. Erano spaventati, non sapevano… A un certo punto, dopo il dialogo interreligioso, la preghiera interreligiosa, questo ha preparato il cuore di tutti noi, eravamo religiosamente molto aperti. Io, almeno, mi sentivo così. Ed è arrivato il momento che loro venissero per salutarmi. In fila indiana – quello non mi è piaciuto, uno dopo l’altro -; ma subito volevano cacciarli via dal palco. E io lì mi sono arrabbiato e ho sgridato un po’ – sono peccatore – e ho detto tante volte la parola ‘rispetto’, ‘rispetto’. Ho fermato la cosa, e loro sono rimasti lì. Poi, dopo averli ascoltati a uno a uno con l’interprete che parlava la loro lingua, io cominciai a sentire qualcosa dentro: ‘Ma io non posso lasciarli andare senza dire una parola’, e ho chiesto il microfono. E ho incominciato a parlare… Non ricordo cosa ho detto. So che a un certo punto ho chiesto perdono”. Interrogato sul motivo per cui in Myanmar non ha usato la parola Rohingya, il Papa ha commentato: “La cosa più importante è che il messaggio arrivi. Per questo, ho visto che se nel discorso ufficiale avessi detto quella parola, avrei sbattuto la porta in faccia. Ma ho descritto le situazioni, i diritti di cittadinanza, ‘nessuno escluso’, per permettermi nei colloqui privati di andare oltre. Io sono rimasto molto, molto soddisfatto dei colloqui che ho potuto avere, perché è vero, non ho avuto – diciamo così – il piacere di sbattere la porta in faccia, pubblicamente, una denuncia, no, ma ho avuto la soddisfazione di dialogare, di far parlare l’altro, di dire la mia e così il messaggio è arrivato. E questo è molto importante, nella comunicazione: la preoccupazione che il messaggio arrivi. Tante volte, le denunce, anche nei media – non voglio offendere -, con qualche dose di aggressività chiudono il dialogo, chiudono la porta e il messaggio non arriva”.

46papa_risciò“Il futuro del Myanmar deve essere la pace, una pace fondata sul rispetto della dignità e dei diritti di ogni membro della società, sul rispetto di ogni gruppo etnico e della sua identità, sul rispetto dello stato di diritto e di un ordine democratico che consenta a ciascuno individuo e ad ogni gruppo – nessuno escluso – di offrire il suo legittimo contributo al bene comune”.
Pur senza menzionare esplicitamente i Rohingya, Francesco fa notare che la costruzione della pace e della riconciliazione nazionale può avanzare solo attraverso l’impegno per la giustizia e il rispetto dei diritti umani. Se lavorano insieme, con spirito di armonia e rispetto reciproco, le comunità religiose birmane possono svolgere un ruolo importante in questo processo, soprattutto per guarire le ferite emotive, spirituali e psicologiche di tutti coloro che hanno sofferto negli anni del conflitto. In Myanmar, “il futuro è nelle mani dei giovani”, dice il Papa nella parte finale del discorso alle autorità e al corpo diplomatico, in cui parla di giustizia tra le generazioni e del diritto che “le generazioni future possano ereditare un ambiente naturale incontaminato dall’avidità e dalla razzia umana”.
46Papa_Myanmar_GiovaniQuanto era rimasto sottinteso nella prima parte del suo 21° viaggio apostolico, è stato reso esplicito dal Papa in Bangladesh, dove Francesco ha chiesto apertamente perdono al popolo Rohingya: “È poco quello che noi possiamo fare perché la vostra tragedia è molto grande. Ma facciamo spazio nel nostro cuore. A nome di tutti, di quelli che vi perseguitano, di quelli che hanno fatto del male, soprattutto per l’indifferenza del mondo, vi chiedo perdono”.
La dichiarazione è stata sancita da un doppio abbraccio, pubblico e privato: questa è l’istantanea della sua visita in Bangladesh che passerà alla storia. In quel Paese la parola Rohingya, tenuta sotto traccia in Myanmar, è stata pronunciata apertamente per la prima volta da Francesco diventando il simbolo di tutte le tragedie dei popoli dimenticati dalla storia, di tutte le vittime della “cultura dello scarto”, di ogni tipo di umiliazione della dignità umana. “Dio, oggi, si chiama Rohingya”, dice il Papa nell’abbraccio nascosto alle telecamere. Ed è proprio in quel nascondimento che si comprende fino in fondo che, per lui, Rohingya non è una parola ma un volto, anzi i volti dei 16 rappresentanti di quel popolo incontrati nel giardino dell’arcivescovado di Dacca. Dopo quelle parole forti la comunità internazionale non potrà più voltarsi dall’altra parte. Un’altra periferia è stata posta al centro del mondo, grazie all’umile megafono di un Papa. Una Chiesa giovane, quella del Bangladesh, ma viva e caratterizzata dalla capacità di accoglienza e dall’armonia che regna tra i suoi abitanti, di 43 etnie diverse.