
A stare peggio sono i giovani e le famiglie con figli minori
Il Rapporto Istat sulla povertà in Italia nel 2016 rileva una “sostanziale stabilità della povertà assoluta in termini sia di famiglie sia di individui”. Una notizia che di primo acchito potrebbe sembrare, se non buona, almeno non cattiva, ma che, invece, ha poco di positivo se si ragiona in confronto con gli anni pre-crisi. Se si pensa che nel 2007 i poveri erano poco più di un terzo degli attuali, ciò vuol dire che i livelli negativi raggiunti negli anni successivi non sono ancora stati migliorati.
La soglia della “povertà assoluta” è calcolata in base alla spesa mensile minima necessaria per acquisire un paniere di beni e servizi che, nel contesto italiano e per una famiglia con determinate caratteristiche, è considerato essenziale a uno standard di vita minimamente accettabile. Per il 2016 l’Istat stima che questa condizione coinvolga 1 milione 619 mila famiglie (il 6,3%), per un totale di 4 milioni e 742 mila individui (il 7,9% della popolazione totale). Il numero delle famiglie torna ai livelli del 2013 (quando erano 1 milione 615mila), ma il numero delle persone tocca il valore più alto dal 2005 e questo perché – osserva l’Istituto nazionale di statistica – “la povertà assoluta è andata via via ampliandosi tra le famiglie con quattro componenti e oltre e tra quelle con almeno un figlio minore”.
Molto significativo è anche l’aumento dell’intensità della povertà – l’indicatore che rappresenta quanto la spesa delle famiglie sia al di sotto della soglia di povertà – che passa da 18,7% a 20,7%. I poveri, insomma, sono ancora più poveri.
Il rapporto sul 2016 evidenzia un altro dato importante, che riguarda il peggioramento registrato nelle regioni centrali, in cui aumentano sia le famiglie povere (da 4,2% a 5,9%) sia gli individui (da 5,6% a 7,3%). Un fenomeno determinato in prevalenza dal balzo della povertà assoluta (da 3,3% a 6,4%) nei comuni con meno di 50mila abitanti al di fuori delle aree metropolitane.
Dovrebbe far riflettere – in quanto legato al ritornello del “Paese per vecchi” – l’andamento inversamente proporzionale della povertà assoluta in relazione all’età, una tendenza in atto dal 2012: il valore minimo riguarda le famiglie in cui la persona di riferimento ha più di 64 anni (3,9%), il massimo quelle in cui la persona di riferimento è sotto i 35 anni (10,4%). Come ormai è dimostrato da tempo, la crisi ha colpito e continua a colpire soprattutto i minori e i giovani. In generale, le famiglie con tre o più figli minori sono quelle per le quali cresce maggiormente l’incidenza della povertà assoluta che è passata dal 18,3% del 2015 al 26,8% del 2016.
Per la povertà relativa le dinamiche stimate dall’Istat sono analoghe a quelle evidenziate per la povertà assoluta. La “povertà relativa” viene calcolata individuando il valore di spesa per consumi al di sotto del quale una famiglia viene definita povera in termini relativi. In riferimento al 2016, si definiscono povere le famiglie costituite da due persone con una spesa mensile pari o inferiore a 1.061,50 euro. Nel 2016 le famiglie in questa condizione erano 2 milioni 734 mila (il 10,6% del totale), corrispondenti a 8 milioni 465 mila individui, cioè il 14% della popolazione, in sostanziale parità con il 2015. Come per la povertà assoluta, le più coinvolte sono le famiglie con quattro componenti o con cinque o più componenti (rispettivamente il 17,1 e il 30,9%). Stesso discorso anche per quanto riguarda l’età: le famiglie giovani, in cui la persona di riferimento ha meno di 35 anni, raggiungono il 14,6%, mentre quelle in cui tale persona ha più di 64 anni non superano l’8%.
Gli organismi che operano in questo ambito – come Alleanza contro la povertà e il Forum delle associazioni familiari – chiedono alla politica “scelte coraggiose” verso “una fiscalità che tenga conto dei componenti familiari”: in un Paese con la nostra situazione demografica “si dovrebbero incentivare le nascite, non mettere le famiglie nella condizione di impoverirsi per la nascita di un figlio”.