A CENTO ANNI DALLA NASCITA
“Convergenze parallele” per un bene comune che nasce soltanto dal confronto delle idee. Ucciso dalle BR nel 1978
Difficile. Incomprensibile. Astruso. Su questi aggettivi si è giocata l’immagine di Aldo Moro. L’uomo politico pugliese, esponente di spicco della Democrazia Cristiana ucciso dalle Brigate Rosse, avrebbe compiuto cento anni la scorsa settimana.
Un uomo solo e lasciato solo
Aldo Moro (1916-1978)
Ancora oggi ci si chiede perché i vertici dello Stato e della Democrazia Cristiana non abbiano accettato di intavolare una trattativa con i brigatisti che tenevano prigioniero Aldo Moro: “cavallo di razza” della DC ed ai vertici dello Stato. Egli non aveva un seguito amplissimo all’interno del partito scudocrociato, dove c’erano correnti ben più potenti di quella, sparuta, che faceva capo a quell’uomo schivo, condizionato, nel privato, da manie che lasciano sorridere (bello è il ritratto umano che, nel 1982, ne tracciò la figlia Maria Fida in “La casa dei cento Natali”), ma rigoroso nel pensiero, tanto da far parlare di una filosofia politica morotea. Forse, è stata proprio questa sua solitudine da studioso più che da politico avvezzo alle folle prima a generarne le fortune e poi a decretarne la morte. A generarne le fortune perché a Moro nessuno avrebbe potuto attribuire incoerenza o inadeguatezza a guidare o il partito o il paese. Per lui il confronto sulle idee – tutte le idee – era legge indiscutibile. Lo era stata quando fu tra i fautori del primo “compromesso storico”, quello con Nenni che portò alla nascita del centro-sinistra, e, poi, del secondo, con il PCI di Enrico Berlinguer. Un passaggio storico per la storia repubblicana, che da un lato “sdoganava” il PCI come interlocutore di governo per la DC e, dall’altro, generava profondo malessere a livello nazionale ed internazionale. Nazionale all’interno di una DC, per i cui vertici e per parte della sua base più conservatrice il comunismo era il satanico nemico da sconfiggere comunque. A livello internazionale perché un rapporto DC/PCI metteva in crisi equilibri sia negli USA (ove si temeva un avvicinamento al mondo sovietico di un Paese strategico per posizione quale l’Italia), sia nell’URS, ove si paventava uno allontanamento dei comunisti italiani dall’ortodossia sovietica. Tutti ingredienti sufficienti per far fuori quell’uomo del quale neppure il tentativo di invischiarlo nell’affare Lockheed (un paio di settimane prima del rapimento era stato del tutto scagionato dalle accuse) era riuscito a fermare il progetto.
Era nato a Maglie, nella Puglia, nel settembre 1916 ed a Bari aveva compiuto gli studi laureandosi in Giurisprudenza. Ma la sua formazione politica la aveva costruita frequentando la FUCI di Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, il papa che, per impetrare la sua liberazione e la sua salvezza si era rivolto, inutilmente, agli “uomini delle Brigate Rosse” con una lettera che resta fra i documenti più emozionanti degli anni terribili del terrorismo.
Quando Moro, assieme ad altri giovani, militava nell’organizzazione degli Universitari Cattolici vi era nell’Italia che si apprestava ad uscire dalla guerra e ad avviarsi verso la Repubblica, l’esigenza importante, che coinvolgeva la Chiesa, di fare barriera contro il comunismo, nella consapevolezza che l’Italia si sarebbe trovata al confine con l’area di influenza sovietica.
Si trattava, poi, di condurre verso la democrazia un Paese dove la capacità di autogovernarsi delle masse era stata fortemente coartata dalla retorica fascista, colla quale la dittatura aveva condizionato una popolazione rimasta facile preda di nuove retoriche, pronte a condizionare in altre direzioni chi, per la formazione ricevuta, faticava assai a costruirsi propri orizzonti culturali, politici e sociali. Di qui l’obiettivo della FUCI, che Aldo Moro fece proprio, divenendo l’allievo prediletto del futuro papa: la necessità di promuovere cittadini consapevoli, persone in grado di pensare, di costruirsi idee autonome da proporre, difendere, provare sul campo.
Capaci di sostenere (meglio: volere a tutti i costi) il confronto, perché è proprio da questo che può nascere una nuova cultura, base di una società improntata sulla vera democrazia. È ovvio che in questo sistema valoriale non poteva avere cittadinanza il pensiero unico, neppure quello che scaturiva dalla dottrina sociale della Chiesa, che pure i fucini conoscevano a menadito. Anzi era il pensiero unico, quello che genera fondamentalismi, il nemico da battere, soprattutto per chi mirava ad una metodologia politica da attuarsi nell’ambito di un sistema complesso e con profonde rigidità frutto dei contrasti nati dalla guerra, ma ancor più dalle posizioni massimaliste che contrapponevano, escludendo il dialogo, le diverse forze politiche ed, in particolare, quelle di maggiore presa sul popolo.
Se di Moro oggi si può parlare di una concezione politica da lui maturata negli anni ed espressa talvolta con formule apparentemente incomprensibili (come non ricordare le “convergenze parallele” sulla quali si giocò molta ironia!), occorre soprattutto parlare della logica del confronto, da condursi anche quando questo parrebbe improponibile, viste le distanze che separano gli interlocutori. Confronto serrato, costruito con pazienza e con la forza delle idee, che possono essere discusse, ma mai tradendo i valori di fondo. Le “convergenze parallele” erano proprio questo: la metafora della capacità di stare assieme per andare avanti, come un treno sui suoi binari, sapendo di essere per molti aspetti ruote diverse, ma comunque tutte proiettate verso il bene comune che uno stato che guardi ai più deboli deve interpretare nelle diverse contingenze della storia.