L’Italia ha ottenuto parecchie vittorie anche nei tempi tristi delle dominazioni straniere e nei vari momenti del Risorgimento. Eppure quando si dice “la Vittoria” nessun dubbio: tutti sanno che si parla della Grande Guerra quella che, su tutti i fronti e non solo sul fronte italiano, fu una immensa carneficina (più di 600 mila morti) che indebolì, forse per sempre, l’Europa preparando la Seconda Guerra mondiale. All’inizio gli Italiani si illusero che si trattasse di una guerra brevissima. L’Italia dichiarò guerra all’Austria il 24 maggio 1915 e quel giorno i milanesi appesero, ai balconi, le bandiere tricolori, illudendosi di tenerle esposte fino alla imminente vittoria. Ma, poco alla volta, esse persero il verde e il rosso mentre il bianco si annerì. Dopo la sconfitta di Caporetto, da guerra di aggressione divenne guerra difensiva e simbolo delle novità fu l’Inno del Piave: l’unico fiume che “mormorava calmo e placido” mentre l’Italia crocifissa viveva la “sua notte degli Ulivi”. Nel febbraio del 1918, durante una cena a Versailles, il ministro degli esteri Sonnino, chinando la testa, disse: “Ho letto che questa guerra mondiale deriva dal passaggio dell’ultima cometa presso la Terra. La cometa l’ha, forse, avvelenata? Qualche cosa sicuramente ha travolto le nostre volontà poiché siamo diventati tutti pazzi. La follia sterminata è padrona degli uomini”. Nel fondo della propria coscienza sentì “la disperata inutilità dell’affaticarsi umano”. Intanto come si sentiva un uomo, avvezzo alla campagna, costretto a lasciare la moglie incinta e una piccola figlia, chiamato a vivere una realtà sconosciuta e terribile? Ho provato ad immaginare lo stato d’animo di nonno Sante, simile a quello di tanti giovani che, come lui, han fatto olocausto della loro vita sognando un Paese libero e in pace. “Ti immagino, nonno, dietro i reticolati del Grappa, sprofondato nelle trincee fangose, avanzare a fatica, inciampando, cadendo, mentre le notti erano illuminate dai razzi, strani fiori di luce verde che toccavano il suolo ondeggiando. Lassù dove gli eserciti si fronteggiavano, aldilà della terra di nessuno, si stendeva la terra della disperazione. Qui ti aggiravi portando segnata, sul volto impietrito, l’anima ormai impassibile. Tutto era uguale: la trincea dalla quale si sentiva il nemico parlottare e la baracca sul rovescio della collina, dove i fiori avevano il coraggio di sbocciare e gli uccelli, ignari delle umane tragedie, tentavano un canto. Che ne sapevi tu del Carso, dell’Isonzo, del Piave… il tuo mondo, la tua carta geografica, cominciava e finiva a Vico-Monterole, in quel grappolo di case dove tutto era noto e famigliare, dove volevi crescere, assieme alla giovane moglie Clarice, la piccola Emma trepidando per l’arrivo di Luigi, già orfano nel grembo materno. T’han detto di combattere per la Patria, t’han consegnato un fucile che non sapevi neppure tenere fra le mani nodose abituate alla zappa e alla vanga per dissodare la magra terra. T’han riempito di grappa mandandoti in prima linea. Non so se sei riuscito a sparare, so soltanto che una bomba nemica ti ha fatto esplodere. Una piastrina con un numero, il tuo, raccolta da un compagno; la tua anima accolta dal Dio della vita. Morto, nonno un secolo fa insieme a una moltitudine di giovani che attraversa la storia. Quale messaggio da una simile folla, senza nome, di fanti d’Italia? È un coro di voci che spezza il silenzio dei grandi cimiteri di guerra. Dalle vostre ceneri il monito del quotidiano impegno per la costruzione di un mondo saldamente radicato sui pilastri della verità, della giustizia, della condivisione delle risorse, della libertà e del rispetto della dignità umana. Di cui ogni uomo, a qualsiasi latitudine, è portatore”.
Ivana Fornesi