
Domenica 18 novembre, XXXIII del tempo ordinario
(Pr 31,10-13.19-20.30-31; 1Ts 5,1-6; Mt 25,14-30)
Gesù ha appena spiegato ai discepoli che bisogna farsi trovare pronti quando giungerà il Regno, raccontando la parabola delle dieci vergini; continuando su quel tema, il Maestro racconta ora un’altra parabola, quella dei cinque talenti, che serve a spiegare più nel dettaglio cosa succederà esattamente: un uomo parte per un viaggio, e chiama i suoi tre servi, dando a ciascuno parte dei propri beni: “A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno.”
Il padrone è Dio, i servi sono l’umanità. Dio si mostra all’apparenza ben poco “democratico”, non dà a tutti lo stesso, ad alcuni dà di più e ad altri di meno. Ma attenzione: nessuno ha più o meno di quanto può gestire. E non sono doni, sono consegne in affidamento.
Partito il padrone, i servi si occupano ciascuno dei beni ricevuti. Il primo impiega i suoi cinque talenti (una misura di oro, pari alla capacità di un’anfora). Anche il secondo impiega i suoi due talenti. Il terzo invece non si fida, non vuole rischiare di perdere il singolo talento affidatogli dal padrone, e lo va a mettere al sicuro, sotto terra. “Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò”.
Il ritorno glorioso del Signore tarda, ma, inatteso, verrà. Chiama i suoi tre servi, e chiede conto della fiducia da lui riposta in loro. Il primo presenta i cinque talenti ricevuti, e altri cinque che ha guadagnato impiegandoli. Il secondo presenta i due talenti ricevuti, e altri due che ha guadagnato. A entrambi, il padrone rivolge parole di apprezzamento: “sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone.” Giunge il momento del terzo.
Timoroso, il servo si presenta al padrone e gli restituisce il singolo talento, tenuto al sicuro in una buca nel terreno. Questa volta il padrone si infuria: “Servo malvagio e pigro, […] avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha.” L’errore del terzo servo, e di chi come lui non impiega quanto Dio gli ha dato, è stato pensare che bastasse tenere al sicuro il proprio “talento”, reale o figurato, per essere da Lui ricompensati. Ha un’immagine del Signore che si è fabbricata: gli fa paura, ritiene che chieda una scrupolosa osservanza di ciò che ordina, e che agisca in modo arbitrario.
Di conseguenza ha scelto di non correre rischi: ha messo al sicuro, sotto terra, il denaro ricevuto, e ora lo restituisce tale e quale. Così rende al padrone ciò che è suo e non ruba, non fa peccato. Così non è.
Questa parabola non è un invito all’attivismo, ma alla vigilanza, non è un’esaltazione all’efficienza, e neppure un inno alla meritocrazia, è un invito alla conversione rivolto a tutte le comunità cristiane, che, allora come oggi, a volte sono tiepide, senza iniziativa, si accontentano di quello che fanno, hanno paura dei cambiamenti. Qualunque talento il Padre ci dia, e a ciascuno Egli ne dà nella esatta quantità in cui può servire, lo fa affinché noi lo impieghiamo a rendere il mondo e l’umanità migliori, così che ciò che all’inizio dei tempi è stato visto come “cosa buona” venga ritrovato come cosa ancora più buona.
Pierantonio e Davide Furfori