
Un debordante identitarismo fa da cornice ad un ritorno del centralismo ministeriale che accantona l’idea di autonomia scolastica.
La bozza delle nuove Indicazioni nazionali per la scuola dell’infanzia, la primaria e le scuole medie è stata resa pubblica dal Ministero dell’Istruzione
Tanto tuonò che piovve, recita la saggezza popolare, e infatti, dopo una lunga serie di anticipazioni, spesso accompagnate da indiscrezioni scarsamente veritiere, il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha pubblicato la bozza delle “Nuove Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione”.
Tale pubblicazione, offerta a tutti gli interessati del settore per il dibattito pubblico, mira ad avviare una fase di consultazione e confronto che, nelle intenzioni del Ministero, dovrebbe condurre all’adozione dei nuovi curricoli già a partire dall’a.s. 2026-2027.
Il documento, alla cui redazione ha contribuito un numero di esperti insolitamente alto (oltre cento, secondo quanto dichiarato), colpisce innanzitutto per la sua corposità: 154 pagine, fittissime e ricche di citazioni latine ed espressioni anglosassoni, che, soprattutto se confrontate con le sobrie 68 delle “Indicazioni nazionali” attuali, inducono ad aspettative di innovazione quantomeno straordinarie.

Tuttavia, non pare sia così. “C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole” canta il Poeta (uno di quelli citati nel documento), ma poi ci ripensa e aggiunge “anzi d’antico” e in effetti, più di un aspetto di queste “Nuove Indicazioni” sembra richiamare al passato piuttosto che all’attuale realtà della scuola pubblica.
Sia chiaro, le novità ci sono: l’introduzione dello studio del latino; l’istruzione integrata STEM (acronimo di Science, Technology, Engineering, Mathematics); i costanti “suggerimenti di possibili ibridazioni tecnologiche”; i riferimenti alla didattica laboratoriale e interdisciplinare, ne sono un esempio.
Con quali risorse economiche, strutturali e umane tutto ciò verrà attuato, così come “quando” all’interno degli odierni “tempi scuola”, che peraltro le famiglie richiedono sempre più ridotti (come dimostra anche la realtà del nostro territorio con la perdita, nella Secondaria di 1^grado, di tutti i corsi a tempo prolungato, quelli, per intenderci, nati proprio per favorire una didattica laboratoriale di potenziamento e inclusione), non è ancora stato precisato, ma certamente costituirà, per il mondo della scuola, un non semplice, futuro problema.
Invece, nonostante le intenzioni dichiarate dalla Commissione, che le presenta come “novità […] concepite a supporto del lavoro progettuale […] nel massimo rispetto dell’autonomia e della creatività degli insegnanti”, richiamano al passato le “Traiettorie per l’innovazione”.
Esplicitate nei paragrafi “Conoscenze” e nei successivi “Suggerimenti”, esse integrano e vanno ad ampliare il già nutrito elenco di premesse, finalità, obiettivi e competenze stabiliti per ogni disciplina. A fronte della dichiarata volontà di essenzialità, la quantità, la qualità e la peculiarità delle conoscenze e dei suggerimenti che la Commissione propone ai docenti è tale da dare l’impressione di un ritorno ai “Programmi” standardizzati e tendenzialmente nozionistici del passato.
Sappiamo che così non può essere: le “Indicazioni nazionali” sono, di nome e di fatto, un documento “di indirizzo”, che affianca la scuola dell’autonomia e fissa traguardi e obiettivi attesi al termine di percorsi prestabiliti; quali strumenti, metodologie, testi, attività si debbano utilizzare per raggiungere tali obiettivi è “onore ed onere” dei docenti, cui spetta la scelta di cosa fare e di come farlo all’interno dei diversi contesti-classe.
Infine, è doveroso accennare a quello che può essere considerato l’aspetto più sconcertante e imbarazzante delle “Nuove Indicazioni”: l’idea, espressa in numerosi punti del testo, che ci sia la civiltà dell’Europa occidentale e mediterranea debba essere centrale nei programmi di studio in virtù di una sua superiorità rispetto al resto del mondo. In cosa si manifesta questa superiorità non è dato sapere.

Frasi come “Solo l’Occidente conosce la Storia”; oppure “Il termine ‘persona’ ha radici storico-culturali occidentali” e ancora “la libertà è il valore caratteristico più importante dell’Occidente e della sua civiltà” sono gratificanti, ma cosa significano? Nulla. Non significano nulla.
A meno di non credere sul serio che nella plurimillenaria storia dell’Umanità e in tutto il vasto mondo, nessuno abbia mai intuito il concetto di persona e abbia trovato una parola per definirla prima dei Greci. O che in tutte le millenarie civiltà extra-europee, dall’Asia all’Oceania, non si sia mai scritta una Storia degna di questo nome.
Noi Europei condividiamo una grande civiltà, nessuno lo nega. È la nostra civiltà, le apparteniamo, come non amarla? Ma per questo è migliore di altre? Ci ha resi migliori? Ci ha forse impedito di conquistare con la forza altre terre sterminando o schiavizzando i popoli che le abitavano? Forse non rientravano nella nostra definizione di “persona”? Forse non amavano anch’essi la libertà?
Ogni civiltà è grande e misera allo stesso tempo, sta a noi trasmetterne il positivo e condannarne il negativo. Ce lo insegna la Storia. Quella che noi occidentali conosciamo così bene.
(Giovanna Bianchi)