L’America cambia: Donald Trump alla Casa Bianca

Elezioni USA.
Il miliardario vince e diventa il 45° presidente.
Netta sconfitta per Hillary Clinton che era data per favorita

Donald Trump
Il neo presidente eletto degli USA: ha battuto nettamente la candidata democratica Hillary Clinton

I primi segnali di quale sia l’impatto che l’elezione alla Casa Bianca del miliardario repubblicano Donald Trump li hanno dati i mercati asiatici, i primi a svegliarsi in una giornata che ha tutte le caratteristiche per entrare nella storia del mondo, non solo in quella degli Stati Uniti. Crolli nelle borse di Tokio, Hong Kong, ma subito dopo anche di Londra, balzo in avanti dell’oro (storico bene rifugio!), calo del prezzo del greggio, a segnalare le vivaci preoccupazioni di un’economia mondiale che sull’utilizzo dell’oro nero gioca buona parte delle sue performances. Preoccupazioni che traggono origine dalle troppe incertezze che l’esito delle urne americane alimenta. Non tanto per quello che da noi potrebbe apparire strano: gli americani sono abituati a vedere i due maggiori partiti alternarsi al vertice dello Stato. Una volta tocca ai democratici (e Obama ha fatto il bis, così come George Bush), l’altra ai repubblicani; sono partiti in cui le posizioni politiche su molti temi non si discostano nella misura in cui può accadere in Italia ed in buona parte dell’Europa fra destra e sinistra, anche se negli ultimi otto anni il solco si è allargato, soprattutto per la sicurezza sociale. Ma oggi il voto porta a gestire lo Stato un uomo che del partito repubblicano interpreta l’ala più conservatrice: vicino alla destra più esagitata, Trump si professa apertamente anti-immigrazione, è attiguo alla lobby delle armi, rifiuta dichiaratamente gli accordi sulla gestione dell’inquinamento in prospettiva mondiale. In tutta la campagna elettorale (ed ancor prima, quando ha conquistato la candidatura a dispetto di molti esponenti di primo piano del suo partito) si è distinto non tanto per un quadro organico di proposte, quanto piuttosto per il perseverare di un linguaggio violento e di atteggiamenti populisti che gli hanno portato i voti di molti che si sono sentiti attratti da chi prometteva loro di rendere di nuovo grande l’America interpretando i bisogni spiccioli di una collettività tuttora colpita da una crisi economica che fatica ad essere vinta. Oggi la grande sconfitta è Hillary Clinton, ma forse ancor di più il partito democratico che su una candidatura donna ha sostanzialmente scommesso buona parte della sua sorte. I democratici sembrano aver pensato che, così come otto anni or sono, l’essere nero aveva dato al loro candidato una marcia in più, oggi puntare sulla “prima donna alla Casa Bianca” poteva essere la mossa vincente. Ma Hillary Clinton era apparsa da subito una candidatura debole. Lo stesso successo dell’antagonista interno, il senatore del Vermont Bernie Sanders, che è riuscito a tenere botta alla ben più gettonata ex first lady per molti mesi, è un sintomo di come la forza nel voto per il vertice dello Stato della candidata democratica stesse nell’intrinseca debolezza del suo avversario. Del resto, lo si notava anche su questo settimanale recentemente, mai si era assistito ad una campagna giocata sul nulla come in questo caso. E Trump non ha vinto per l’organicità delle sue proposte politiche, ma perché ha sollecitato la pancia di un’America orgogliosa, di una destra capitalista e sbruffona che guarda agli altri, considerandoli sostanzialmente diversi, con un senso di superiorità che confina con atteggiamenti razzisti. Ora Donald Trump potrà interpretare davvero il ruolo che si è assunto in questi mesi, guidando col suo stile da cow boy di provincia quell’America che si sente arbitra del mondo? Lo si vedrà, perché, se è vero che anche Camera e Senato sono in salda mano repubblicana, è anche vero che sono molti i repubblicani di vecchia data che in questi mesi hanno preso le distanze dagli eccessi del loro candidato più importante. E molti di essi siedono in Parlamento.

Giulio Armanini