Dalla Liguria l’ennesimo  segnale di un potere regionale bisognoso di riforme

L’inchiesta di Genova segue ad una lunga serie di scandali più o meno eclatanti che suggeriscono una riflessione sugli esiti della riforma che nel 2001 ha attribuito una così forte importanza alle regioni

Ancora un’inchiesta giudiziaria, l’ennesima, sulle regioni italiane; l’attenzione della magistratura questa volta si è concentrata sulla Liguria, con arresti, misure cautelari e avvisi di garanzia per una trentina di persone, a partire dal Presidente della Regione, Giovanni Toti, agli arresti domiciliari nella sua casa di Ameglia, in val di Magra.
È troppo presto per esprimere condanne, che spettano ai giudici nel contesto dell’iter processuale, e non alla stampa. Ma fuori dal campo penale, le informazioni che la Procura della Repubblica di Genova ha divulgato nei giorni scorsi offrono un quadro sconfortante sotto il profilo politico, fatto di rapporti eticamente riprovevoli tra rappresentanti delle istituzioni, imprenditori e titolari di concessioni pubbliche.

Il presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti (foto da facebook)

Non è la prima volta che il potere regionale finisce sotto inchiesta per gli stessi rapporti con il potere economico. Eclatanti sono stati i casi che hanno coinvolto la Lombardia con Roberto Formigoni o l’Abruzzo con Ottaviano Del Turco, entrambi conclusi con condanne definitive.
Ma non si contano gli scandali “minori”: in Toscana, per esempio, è cominciato la settimana scorsa il processo sullo scandalo dei rifiuti delle concerie, con presunto coinvolgimento della ‘ndrangheta, che ha come imputati, tra gli altri, Ledo Gori, ex Capo di Gabinetto del Presidente Enrico Rossi, e il consigliere regionale Andrea Pieroni. Per non parlare dell’attribuzione di generosi vitalizi o della stagione dei processi per i rimborsi dei consiglieri di molte regioni, terminati con molte assoluzioni, ma anche con le grottesche situazioni che determinarono lo scioglimento anticipato della giunta regionale del Lazio, nel 2012.
Con l’inchiesta genovese ancora una volta le regioni salgono alla ribalta delle cronache giudiziarie, un approdo ben distante dal fare di esse l’architrave di un nuovo rapporto tra cittadini e Stato.
La riforma costituzionale voluta e votata in solitaria dal centrosinistra nel 2001 – una resa incondizionata ai valori del leghismo di allora – prefigurava le regioni come organo più capace, in un’ottica di sussidiarietà, di cogliere i bisogni dei cittadini, al punto da prevedere nel nuovo articolo 116 la possibilità dell’autonomia differenziata oggi pretesa da Veneto e Lombardia (e in passato anche dall’Emilia di Bonaccini), di fatto minando l’essenza dell’unità nazionale.
Non solo: a rafforzare il ruolo delle regioni è arrivato anche lo svuotamento di competenze e di legittimazione elettorale delle province e lunghi periodi di tagli alle risorse dei comuni.
Le nuove competenze (la più importante è la gestione della sanità), l’autonomia di spesa, cioè decidere più o meno liberamente come spendere i soldi – in larghissima parte raccolti dal governo centrale e ripartiti tra le regioni, con buona pace degli incentivi alla responsabilità – e una forte autonomia organizzativa hanno fatto delle regioni italiane dei principati senza alcun sostanziale contrappeso.
In questo contesto il peso politico dei presidenti di regione è cresciuto a dismisura: dalle loro scelte e dalla loro discrezionalità dipende la realizzazione dei progetti di tanti sindaci di piccoli comuni con scarse risorse finanziarie, mentre dalla loro tenuta elettorale dipendono le sorti di governi nazionali e gli equilibri delle coalizioni.
Un connubio, quello tra la dimensione locale e quella nazionale, che in molte regioni si manifesta con la presenza capillare del “governatore” a sagre, processioni e inaugurazioni, eventi nei quali si consolidano relazioni e si coltiva la propria popolarità.
I processi decisionali, però avvengono altrove: nei meeting dei manager della sanità, nelle riunioni dei dirigenti del trasporto pubblico locale, negli incontri riservati con i rappresentanti delle categorie economiche di maggior peso nei vari territori.
È in queste sedi che si determinano le politiche regionali, ratificate da consigli regionali in cui l’elezione diretta del presidente e il premio di maggioranza relegano la minoranza ad un ruolo marginale.
L’arresto di Giovanni Toti è le informazioni divulgate sull’inchiesta stanno mostrando questo livello delle relazioni politiche, ma non occorrono fatti penalmente rilevanti per osservare le stesse dinamiche altrove.
Al bisogno di una riflessione ampia e approfondita sul ruolo delle regioni nell’assetto istituzionale italiano si affianca un ulteriore tema. Il finanziamento pubblico ai partiti, definitivamente archiviato nel 2017, non garantiva di per se l’autonomia di formazioni politiche bisognose di risorse dal potere economico.
Ma la sua eliminazione ha fatto saltare ogni forma di separazione tra politica e imprese: i bonifici al movimento di Toti in cambio di concessioni e facilitazioni hanno fatto cadere il velo che nascondeva le conseguenze di una scelta populista rispetto alla quale, dando un’occhiata ai giornali di queste settimane, non sono in pochi a proporre di tornare indietro, sia pur con i dovuti correttivi.

(Davide Tondani)