
I dati Istat su povertà e demografia consegnano l’immagine di un’Italia senza politiche sociali e timorosa del futuro

Con due comunicati emessi a breve distanza, la settimana scorsa Istat ha certificato che nell’Italia del 2023 sono a aumentati i poveri e sono diminuite le nascite. Le due notizie non sono tra di loro correlate ma pongono in evidenza due aspetti che caratterizzano più di ogni altro la qualità della vita della società italiana.
Secondo le stime preliminari pubblicate dall’Istituto di Statistica, nel 2023 le famiglie in povertà assoluta si sono attestate all’8,5% del totale delle famiglie residenti (erano l’8,3% nel 2022), corrispondenti a circa 5,7 milioni di individui.
La soglia di povertà assoluta, va ricordato, rappresenta la spesa minima necessaria per acquisire i beni e servizi che, nel contesto italiano, vengono considerati essenziali per conseguire uno standard di vita minimamente accettabile ed evitare gravi forme di esclusione sociale.
Lo scarto rispetto al 2022 è trascurabile, ma non quello rispetto al 2019, ultimo anno prima della pandemia. Allora le famiglie in povertà assoluta erano il 6,7% del totale, corrispondenti al 7,6% degli individui.

Da allora la percentuale di poveri assoluti è sempre aumentata, senza che nessuna politica pubblica sia riuscita ad invertire la tendenza: non quella del governo Draghi, entrato in carica dopo la fase più acuta dei lockdown, ma nemmeno quella del governo Meloni attualmente in carica.
Sui dati emessi da Istat pesa tuttavia il fattore “reddito di cittadinanza”, che proprio il governo della destra ha deciso di eliminare. La povertà assoluta nel 2014 colpiva il 6,9% degli individui e da allora non ha fatto che salire.
Il Rapporto di Istat, tuttavia, riconosce che il tasso di povertà “si stabilizza di nuovo nel 2018, per poi decrescere nel 2019 al 6,7%, in concomitanza con l’introduzione del Reddito di cittadinanza di cui, a partire dal secondo trimestre, hanno beneficiato circa un milione di famiglie in difficoltà”.
La ricerca pubblica ha quindi suffragato quanto espresso da centri studi universitari e privati e dal mondo del volontariato: in un Paese sempre più disuguale, indipendentemente dai governi che si sono succeduti nell’ultimo decennio, il reddito di cittadinanza, strumento non privo di difetti e contraddizioni, ha comunque giocato un ruolo essenziale nel contenimento dell’indigenza.
I dati Istat, contemporaneamente, sfatano la certezza, tipica del Novecento, del lavoro come miglior antidoto alla povertà. Tra le famiglie con persona di riferimento occupata come lavoratore dipendente, Istat osserva un peggioramento rispetto al 2022: tra queste la povertà assoluta riguarda il 9,1% dei nuclei, contro l’8,3% del 2022 e il 7,7% del 2021. Identico trend riguarda le famiglie con persona di riferimento occupata, senza distinzione tra autonomi e dipendenti, in cui l’incidenza della povertà assoluta è passata dal 7,2% all’8,2% in due anni.
È l’ennesimo “indizio” di una questione salariale che si continua deliberatamente ad ignorare, come dimostra il rifiuto di istituire un salario minimo orario. In attesa dei dati definitivi, che Istat rilascerà ad ottobre, le analisi settoriali offrono inoltre molti spunti degni di analisi.
Il più importante, in un contesto in cui si parla di “merito” senza badare alle condizioni di partenza, è che la presenza di figli minori continua a essere un fattore che espone maggiormente le famiglie al disagio; l’incidenza di povertà assoluta si conferma più marcata per le famiglie con almeno un figlio minore (12%), mentre per quelle con almeno un anziano si attesta al 6,4%.
Per quei bambini la competizione sociale parte già in svantaggio. Ed è proprio sul tema dell’infanzia che si innesta la seconda notizia offerta dall’ufficio di statistica: non si arresta il calo delle nascite in Italia, che prosegue interrotto dal 2008. Secondo i dati provvisori, i nati residenti in Italia sono stati 379mila, con un tasso di natalità pari al 6,4 per mille (6,7 nel 2022).
La diminuzione di nascite rispetto al 2022 è di 14 mila unità (-3,6%). Dal 2008, ultimo anno con un aumento delle nascite, il calo è di 197mila (-34,2%). Il numero medio di figli per donna scende da 1,24 nel 2022 a 1,20 nel 2023. Molto vicino al minimo storico di 1,19 figli nel lontano 1995. E in 10 anni le donne in età fertile sono diminuite di 2 milioni, a quota 11,5 milioni, difficile dunque sperare in una ripresa in tempi brevi.
L’immigrazione conferma il ruolo importante nel frenare il calo della popolazione e nel rallentare l’invecchiamento, ma le scelte procreative delle donne immigrate si stanno velocemente adeguando a quelle delle donne autoctone: il contributo straniero al numero delle nascite si sta riducendo, nonostante la propaganda anti migratoria affermi il contrario.
È evidente che i fattori che contribuiscono alla riduzione della natalità sono tanti e complessi, dai molti di natura sociale a quelli di carattere economico e occupazionale. A questi si aggiungono condizioni che incidono sulle attese rispetto al futuro e quindi sulle scelte procreative.
Ma non vi è dubbio che nell’ultimo ventennio maggiore sono le prese di posizione pro natalità e pro famiglia, minori sono le nascite: un conto sono i proclami, un conto è l’agire. Nel frattempo, povertà in crescita e inverno demografico rappresentano in maniera non solo simbolica il regresso sociale del Paese.
(Davide Tondani)