Cop28: una transizione senza impegni vincolanti  dai combustibili fossili

Tra “abbandono” e “transizione”, con un compromesso, si è chiusa a Dubai la Conferenza delle parti sui cambiamenti climatici

Un successo senza precedenti; la Conferenza più importante da quella di Parigi nel 2015; l’inizio della fine dell’era dei combustibili fossili: la fine della ventottesima Conferenza delle Parti (Cop28) organizzata dalle Nazioni Unite a Dubai è stata celebrata da più parti come un successo senza precedenti.
Il sito ufficiale della conferenza ha addirittura parafrasato Giulio Cesare, scrivendo a caratteri cubitali: “Ci siamo uniti. Abbiamo agito. Abbiamo ottenuto”.
L’entusiasmo dei mass media si è basato essenzialmente su un singolo passaggio della dichiarazione conclusiva del vertice, approvata la mattina del 13 dicembre dopo una nottata supplementare di negoziati.
La dichiarazione, che già di per se non impone obblighi giuridici né tanto meno sanzioni agli Stati, ma rappresenta esclusivamente una raccomandazione, fa appello a “contribuire agli sforzi globali” per “effettuare la transizione dai combustibili fossili, in modo giusto, ordinato ed equo, accelerando l’azione in questo decennio cruciale, per raggiungere l’azzeramento delle emissioni nette entro il 2050 in accordo con la scienza”.
Come sempre in questi casi, sono singole parole a fare la differenza. E in questo caso è stata la parola “transizione” a mettere d’accordo tutti e a far gridare al trionfo di una conferenza in cui il rischio di un mancato accordo era assai concreto.
La diplomazia ha trovato un compromesso accettabile tra le richieste dell’Ue e degli stati “virtuosi” (che avrebbero voluto parlare di “abbandono” dei combustibili fossili), quelle dei paesi petroliferi e della Russia, che rifiutavano qualunque menzione dell’argomento, ed infine di quelle delle economie emergenti, che non volevano impegni che mettessero in discussione il loro sviluppo industriale.
Non si può negare che dichiarare, per la prima volta dalla storica conferenza di Rio del 1992 che devono essere superati tutti i combustibili fossili, responsabili quasi esclusivi del problema climatico, non è cosa da poco.
Assistere agli Emirati Arabi Uniti, uno Stato che deve le sue fortune ai petrodollari, che prende a cuore il buon esito dei negoziati, al punto da costringere l’Arabia Saudita, timorosa di restare da sola al banco degli imputati di un eventuale fallimento, ad abbandonare l’intransigente difesa del petrolio, non può che essere visto positivamente.
Osservare che paesi come la Russia e l’Iran non hanno colto questa occasione per portare avanti il loro scontro geopolitico con l’Occidente, è un’altra novità non trascurabile.
Questi elementi, messi tutti insieme, dimostrano una volta per tutte che il cambiamento climatico è salito molto in alto nella lista delle priorità globali ed è percepito come una minaccia concreta, con buona pace dei negazionisti climatici.

Un fiume in secca (Immagine di repertorio)

Tutto questo, tuttavia, non deve fare eccedere con l’entusiasmo. Gli accordi raggiunti sono per molti aspetti criticabili, come la piena libertà per gli Stati di puntare su soluzioni discutibili come la cattura e il sequestro dell’anidride carbonica o l’uso del gas naturale e del nucleare come “combustibili di transizione”, incuranti, rispetto a quest’ultimo, dei tempi lunghissimi per la costruzione delle centrali e delle previsioni dell’innalzamento dei costi dei combustibili nucleari.
Soprattutto, quello che è stato deciso di fare è ancora troppo poco: l’Agenzia internazionale dell’energia ha valutato l’impatto degli impegni annunciati a Dubai, come quello sottoscritto da oltre 130 paesi di triplicare la capacità di fonti rinnovabili e quello di cinquanta grandi aziende petrolifere sulle emissioni di metano, e ha calcolato che tutti insieme contribuirebbero solo per un terzo a raggiungere l’obiettivo più importante, cioè evitare che la temperatura media globale aumenti di più di 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali, come stabilito con gli accordi di Parigi del 2015.
A Dubai, inoltre, non è stato trovato un accordo sul mercato globale dei permessi di inquinare previsto dagli accordi di Parigi, uno dei pilastri degli sforzi contro il cambiamento climatico.
L’Unione europea ha rifiutato la proposta presentata al vertice, ritenendola molto più vaga e permissiva del suo mercato interno dei crediti di emissioni – il mercato degli ETS che coinvolge obbligatoriamente oltre 11 mila imprese energetiche e industriali di grandi dimensioni.
La vendita dei crediti avrebbe dovuto contribuire a finanziare i progetti per l’adattamento nei paesi poveri, che secondo i calcoli delle Nazioni Unite avrebbero bisogno di una somma 18 volte superiore a quella attualmente disponibile, e non è ancora chiaro da dove verranno i soldi.
Insomma, quello di Dubai è stato un vertice tra luci e ombre, e sarà compito della Cop29, il prossimo anno in Azerbaigian – ancora un paese petrolifero – a dare scadenze certe alla transizione dai combustibili fossili. Dodici mesi utili anche per capire che cosa significhi “serve una transizione ecologica non ideologica”, la frase pronunciata dal Presidente del Consiglio italiano a Dubai prima che l’Italia non lasciasse alcuna traccia significativa della sua presenza al vertice.

(Davide Tondani)