Settant’anni fa il vescovo mons. Sismondo  lasciava Pontremoli

Nel febbraio del 1955 il Vescovo rinunciò al governo pastorale di Pontremoli: non aveva ancora 75 anni e il suo fu, di fatto, un congedo forzato

La guerra era appena finita e quel vescovo, che aveva salvato Pontremoli più volte, si trovava già a dover affrontare altre battaglie. Partendo dalla città, i tedeschi avevano lasciato a mons. Sismondo quanto rimaneva delle provvigioni del loro magazzino e lo avevano fatto per un motivo preciso: lo avevano conosciuto (e forse a loro modo anche ammirato) e sapevano che lui le avrebbe utilizzate per aiutare chi ne avesse avuto bisogno.
Eppure subito ci fu chi trovò da ridire sottolineando che destinatario della donazione dovesse essere “il popolo” e pertanto il vescovo non doveva appropriarsene. Il vescovo certamente non lo avrebbe fatto e suo intento era che i viveri andassero alla popolazione, ma l’opinione pubblica non accettava l’idea di una donazione dal vescovo.
Nessun parere contrario: mons. Sismondo consegnò fino all’ultimo centesimo e forse anche più del ricevuto perché, in un modo o nell’altro, l’importante era che tutto finisse a chi “aveva fame”.

Mons. Giovanni Sismondo (1879 – 1957)

Il suo fidato Felicino (che gli anziani ancora ricordano) spiegava al vescovo che forse qualcosa andava tenuto perché i poveri continuamente andavano a bussare alla porta del vescovado e inoltre anche loro quel giorno avrebbero “dovuto pranzare” ma non ci furono ripensamenti… il vescovo, rimasto senza nulla e come molti allora, quel giorno andò al convento dei Cappuccini e chiese un po’ di minestra, “un povero” tra i poveri.
La sua era dunque una cattedra di umiltà e povertà. Una cattedra di amore e tutta dedita alla “chiesa in uscita”, come direbbe ora Papa Francesco. Perché l’interesse del “buon pastore” era per tutte le sue pecorelle, perché nessuna “andasse perduta”. Fu così ad esempio che mons. Sismondo non esitò neppure un attimo a schierarsi, del dopoguerra dalla parte dei lavoratori della “Cementi”.
Servirono viaggi a Roma, dovette umilmente dialogare con i politici e viaggiare in treno, notte e giorno, in condizioni precarie e dure. Però ci riuscì: la fabbrica non chiuse.
Ma per lui, “inviato” ad essere vescovo per la popolazione, significava anche avere ancora persone con cui “essere cristiano”. Al suo fianco in diverse battaglie mons. Francesco Quiligotti, direttore del Corriere Apuano e vice rettore del seminario.
Un altro obiettivo di mons. Sismondo fu la piena parificazione del Liceo Vescovile. Anche in quel caso fu difficile. Fu necessario impegnarsi e fare sentire la sua voce. Eppure chi lo ha conosciuto dice che la sua voce non era così chiassosa e il suo modo di fare non certo autoritario.

Il vescovo mons. Sismondo (a destra) con il parroco di San Pietro a Pontremoli nel 1939

Ma riusciva comunque a farsi sentire e non si attribuiva la riuscita dei fatti ma piuttosto credeva alla Provvidenza. Come quando, durante la guerra, non ci pensò due volte a raggiungere le valli di Rossano. Fu uno dei tanti viaggi – fatti a piedi nel contesto bellico – per poter evitare il peggio. Le parole del maggiore Gordon Lett, che lo accolse e lo ascoltò attentamente, parlano della figura di un uomo che esponeva soltanto “motivi” per salvare la popolazione. Non chiedeva nulla per sé e aveva toni pacati.
Stessi toni che usò quando dovette cercare, nell’ultimo giorno di guerra, due disertori tedeschi e chiedere loro la confessione che non erano stati presi dai partigiani. Il vescovo altrimenti sarebbe stato arrestato e intanto come “assicurazione” fu preso ostaggio mons. Oreste Boltri, suo segretario.
Gli ultimi periodi di mons. Sismondo in Diocesi furono anch’essi travagliati. Ebbe, per esempio, una denuncia (poi archiviata) perché richiamò i doveri cristiani in vista delle elezioni del 1948. Inoltre all’epoca non c’era ancora la regola del diritto canonico che chiede ai vescovi di “rimettere” il loro mandato nelle mani del Papa al compimento del 75° anno di età.

Don Emilio Cavalieri con il Vescovo Giovanni Sismondo in una processione alla Pieve di Saliceto alla fine degli anni Trenta

E a Pontremoli alcuni, anche qualche sacerdote, si erano dimenticati di quanto bene avesse fatto per tutti. In diversi operarono per cambiare “aria”, arrivò anche una visita apostolica dalla Santa Sede. Il vescovo rinunciò al governo pastorale della Diocesi e lasciò Pontremoli nel febbraio 1955.
Ora forse non sembrerebbe una costrizione ma una regola. All’epoca risultò un congedo forzato e per questo sofferto: un congedo di lacrime e tristezza.
Erano state raccolte alcune offerte per festeggiare il 25° del suo episcopato a Pontremoli (che sarebbe stato nel successivo mese di marzo) e mons. Vescovo, anche di quelle offerte, ne fece buon uso: le donò ai poveri.
Nel suo nuovo soggiorno, al Cottolengo di Torino, si dedicò ai malati come aveva fatto da prete ma tenne sempre Pontremoli nel cuore. Alla sua partenza portò con sé soltanto un po’ di terra della zona.
In quella terra vedeva piovere, nevicare e esserci il sole. Era la terra che il Signore gli aveva donato, la terra su cui si era inginocchiato e per cui aveva speso tutte le sue forze. Morì lasciando quel poco rimasto ai poveri e poi tornò a Pontremoli. Fu il ritorno di un padre tra i suoi figli. Un ritorno a casa, tra la gente che aveva amato e a cui aveva fatto tanto bene.

Fabio Venturini