Cucina tra cielo  e terra: il cibo nei conventi e nelle abbazie

Dalla conferenza di Emilia Petacco all’UniTre Pontremoli-Lunigiana uno spaccato dell’alimentazione nelle istituzioni monastiche lunigianesi

Frugalità, digiuno, astinenza dalla carne: sono queste, fra le altre, le parole che per secoli hanno guidato i comportamenti in cucina e a tavola in abbazie, conventi e monasteri di tutta Europa. Regole molto rigide che tuttavia producevano risultati e inducevano comportamenti diversi a seconda dei tempi.
Lo ha confermato la conferenza tenuta dalla dott.ssa Emilia Petacco martedì scorso, 4 febbraio, a Pontremoli di fronte ai soci dell’Università delle Tre Età evidenziando come, non di rado, ci fossero eccezioni, legate al periodo storico, all’area geografica, alle “regole” di ciascun ordine.
Il breve viaggio nel quale Emilia Petacco ha condotto i presenti è stato costellato di varietà di cibi: come il pane bianco consentito nei conventi nel massimo di una libbra a testa al giorno, ma impossibile da trovare sulla tavola della gente comune, alle prese con pane di segale e di miglio, spesso scuro e pesante, ma più adatto alla conservazione e ad essere portato con sé nella bisaccia del pellegrino.
Una gran quantità di ortaggi, messi a disposizione dagli orti coltivati con cura dai monaci, affiancavano i cereali nella preparazione delle minestre, senza dimenticare che alcuni di questi (cavolo, aglio etc…) garantivano anche terapie che erano in grado di curare attraverso il cibo.
Se differenze erano evidenti fra la tavola delle monache (più semplice e articolata) e quella in alcuni monasteri maschili (con un maggior numero di portate per pranzi più lunghi), non mancavano neppure fra un ordine e l’altro.
La regola di San Benedetto, ad esempio, stabiliva che un pasto principale fosse costituito da una pietanza cotta alla quale affiancare un’altra portata di frutta o legumi da consumare crudi; quella di San Francesco e Santa Chiara lasciava invece più libertà, ispirandosi al principio che, pur nella moderazione, “ogniqualvolta sopravvenga la necessità, sia consentito a tutti i frati, ovunque si trovino, di servirsi di tutti i cibi che gli uomini possono mangiare”.
Ad una straordinaria donna del XII secolo, la monaca benedettina tedesca Ildegarda di Bingen (1098-1179), si deve una vera e propria rivoluzione nella produzione della birra con l’introduzione del luppolo che garantisce un’azione antiossidante e conservante, dunque una durata maggiore e la possibilità di produrre la bionda bevanda in quantità superiori. Anche le istituzioni monastiche della Lunigiana storica sono uno scrigno prezioso di informazioni.
Gli scavi negli spazi dell’antica Abbazia di San Caprasio hanno portato alla luce semi che testimoniano l’estistenza nell’orto di alberi da frutta come pruni, fichi, peri, meli… e la presenza di un’area dedicata alla coltivazione delle piante officinali, così importanti per la cura di malesseri e malattie.
Le monache di clausura del convento di Varese Ligure, fondato da Brigida Caranza (1616 – 1648), suor Teresa, in una casa messa a disposizione dal padre, si specializzarono nella realizzazione di centrini di carta poi venduti per essere utilizzati per torte, dolci e pasticceria in genere. Ma sono note soprattutto per la produzione di una squisita pasta di mandorle, base per le “Sciuette”, che ancora si commercializzano anche se la ricetta originale è andata perduta con il trasferimento a Fermo delle ultime due suore un quarto di secolo fa.
E che dire della loro lavorazione di funghi, così particolare da aver attirato l’attenzione niente meno che di Gioacchino Rossini? Il grande compositore scrisse più lettere alle suore del monastero implorandole di inviargli i loro funghi e alla fine fu costretto a mandare un servitore dalle monache, delegato a pagare una cifra importante pur di averli!
Come si deduce dai registri di spesa e di dispensa, la tavola delle suore di Varese Ligure offriva in gran quantità soprattutto uova e pollame, frumento, orzo e farro. E poi mele da consumare fresche o con le quali preparare marmellate e dolci. Non mancava l’erba cedrina dalla quale ricavare un liquore digestivo e neppure la ruta, utilizzata sia per la grappa che per impieghi medicamentosi.
Per tornare alla Lunigiana interna, tra gli altri merita una citazione il convento di Licciana dei Servi di Maria: fondato nel XV secolo, oggi restano solo pochi ruderi, ma è stata una realtà ricca e di notevole importanza, creata nel tempo dagli instancabili frati dell’ordine mendicante.
Emilia Petacco ha spiegato come da un inventario risulta che nel 1735 a lavorare e gestire i vasti terreni del convento ci fossero 17 tra mezzadri e affittuari di una realtà che poteva contare su bestiame, vino e olio, formaggi e lardo, oltre a quanto arrivava da orti, castagneti, ampi appezzamenti seminativi, canepari etc…
Un mondo dove certo non mancava mai il cibo ma anche sempre aperto per aiutare tutti coloro che erano nel bisogno e che bussavano alla porta dei frati.
Tra i quattro monasteri esistenti a Pontremoli, quello dei Frati Minori di San Francesco era nato nel XIII secolo, in un momento storico molto particolare per il borgo medievale che ottiene i diplomi imperiali di Federico I Barbarossa e di Federico II “stupor mundi”.
Anche questo è un convento ricco, come emerge dai libri delle spese. La relatrice ha sottolineato come negli elenchi compaia eccezionalmente il sapone ed abbiano un posto privilegiato le spezie, il sale e anche quello zucchero così particolare che sarebbe arrivato dopo la colonizzazione delle Americhe. E ancora: canditi, cereali, legumi e formaggi a fianco della farina di castagne e di frumento.
Sulla tavola saporite zuppe condite con erbe aromatiche, ravioli, bondiole di maiale, galline, pesce… confetture, frutta secca e tanto altro ancora. Eppure non bisogna dimenticare che la cucina dei monasteri è stata da sempre caratterizzata soprattutto dalla privazione, il digiuno e l’astinenza, principi ispiratori di abitudini e comportamenti quotidiani.
Le stesse regole degli ordini, anche le più rigide, in genere prevedevano comunque, durante l’anno, periodi nei quali i pasti potevano essere più ricchi. E nei casi dove invece la privazione veniva spinta all’estremo, non mancano le sottolineature negative.
Lo storico della alimentazione Massimo Montanari ricorda il caso di San Pacomio (292 – 348) che, rientrato nel monastero dopo un periodo di eremitaggio, vede che i monaci si sono privati dei piatti migliori, quelli con i cibi più buoni, che venivano solitamente consumati nei giorni di sabato e di domenica.
Spiegano che lo hanno fatto per mortificare ancora di più il corpo, ma Pacomio è inflessibile, bollando addirittura come “satanica” questa ulteriore mortificazione.

Paolo Bissoli