
Riflessioni a margine delle elezioni americane. Trump non incrementa i consensi ma vince di fronte al tracollo dei democratici. Eppure arginare il populismo è possibile

Donald Trump è di nuovo presidente degli Stati Uniti. La vittoria indiscussa del leader repubblicano è maturata in un contesto di affluenza record alle urne: a dati ancora provvisori è certo che le presidenziali della scorsa settimana hanno registrato una partecipazione al voto superiore al 66,8% di 4 anni fa e al 61% del 2016.
Sembrano lontani gli anni di fine Novecento, in cui negli Stati Uniti si recavano alle urne il 50% dei cittadini mentre in Europa si registravano tassi di affluenza di 20-30 punti superiori. Adesso è nel Vecchio Continente che si registra la maggiore astensione. I politologi avranno tempo per interpretare questa tendenza.
La rielezione di Trump suggella l’affermazione del populismo. Trump ha strappato consensi ai democratici, in tutti i gruppi sociali della complessa nazione americana, compresi quelli delle minoranze etniche o religiose tradizionalmente orientate verso i liberal, per decenni “grande capanna” delle diversità negli Stati Uniti.

Gli osservatori della campagna elettorale hanno sottolineato la capacità di penetrazione di Trump in questi gruppi sociali, dai cattolici, membri di una chiesa su posizioni conservatrici, ai giovani, dal mondo sindacale agli immigrati di seconda generazione. A sancire la vittoria dei repubblicani è però, più che una loro avanzata, la dèbacle dei democratici.
Alle elezioni del 5 novembre, Trump ha pressoché confermato i circa 74 milioni di voti raccolti nel 2020, senza registrare grandi aumenti. Harris, al contrario, ha perso ben 13 milioni di voti rispetto a Joe Biden, 68 milioni contro gli 81 milioni di 4 anni fa. La sconfitta democratica è stata per un verso la sconfitta di una parte politica percepita come élite e rappresentata da un vecchio apparato di politici in carriera.
Kamala Harris, per i suoi trascorsi, è stata interpretata come membro di questa “casta”, piuttosto che come la candidata donna afroamericana alla Casa Bianca. Hanno pesato sulla sconfitta democratica lo sgombero dei campus americani durante le manifestazioni contro l’intervento di Israele a Gaza, che ha alienato ad Harris gran parte del voto degli universitari, ma anche il sostanziale via libera dato da Biden e Harris a Netanyahu allontanando il voto delle minoranze arabe.

Ma ad essere sconfitta è stata soprattutto l’idea liberista, adottata dai tempi di Clinton, che la crescita economica basta da sola, senza politiche pubbliche, a incrementare il benessere dei cittadini e a indirizzare il loro consenso.
Nell’ultimo quadriennio l’inflazione galoppante, l’aumento delle disuguaglianze nella distribuzione dei redditi, il declino della grande industria e la svalutazione del lavoro hanno pesato nella percezione di benessere dei ceti popolari e medi americani molto di più dell’aumento del PIL.
In sintesi, ha perso un progressismo che nel tempo ha sostituito quella genuina radicalità capace di fare intravedere una società migliore con il “non c’è alternativa” al mondo così come è, e che di sé mostra soprattutto la pretesa di essere l’unico argine della democrazia e il livore verso chi vota altre proposte.
Con tutti questi limiti nel campo democratico, rimane il fatto di come sia stato possibile che gli elettori abbiano in maggioranza scelto un candidato tra i cittadini più ricchi del Paese, coinvolto in scandali sessuali, a capo di un gruppo imprenditoriale dal passato opaco, tra bancarotte e evasione fiscale, in perenne conflitto con la magistratura e con gli altri poteri dello Stato, amico di leader autocratici, con un programma economico liberista, proteso a demonizzare l’avversario, anche con la menzogna, che per giunta solo 4 anni fa ha ordito un colpo di Stato di fronte alla sua sconfitta.
Se una figura in tutto e per tutto sovrapponibile (ad eccezione del tentato golpe) ha dominato la scena politica italiana per tre decenni, con ampio consenso di popolo e l’accondiscendenza delle classi dirigenti, perché la stessa cosa non può accadere negli Stati Uniti?

Il ritorno di Trump è il simbolo del consenso raggiunto ovunque nel mondo da tanti leader accomunati dalla continua ricerca di un rapporto diretto e senza intermediazione con i cittadini, in un contesto di individualismo che ha tagliato fuori i corpi intermedi e la loro capacità di rielaborare le istanze di ciascuno, lasciando da sole le persone davanti ai problemi impossibili da affrontare singolarmente.
I centri di partecipazione e di elaborazione della vita sociale o sono stati svuotati – i partiti, i sindacati, i luoghi di lavoro e di studio – o hanno registrato una ritirata in se stessi – le chiese, l’associazionismo – lasciando i cittadini senza punti di riferimento, con la partecipazione ridotta a metter like sui social network e figure a mezza strada tra la caricatura e il tribuno televisivo che trent’anni fa non avrebbero avuto alcun seguito, ma che oggi fanno il pieno di voti seminando rabbia e paura.
Il populismo può essere sconfitto e la democrazia può essere salvata solo con un lungo processo di ri-radicamento della politica nella società, attraverso corpi intermedi che affianchino ai diritti civili delle minoranze – da anni unico, talvolta controverso argomento nell’agenda progressista – il ritorno al contatto e all’empatia con le fasce sociali più fragili e permeabili alla retorica populista, riprendendo ad ascoltarne i bisogni e le preoccupazioni, rendendo le persone nuovamente protagoniste del discorso pubblico.
Papa Francesco la definirebbe una “politica popolare”. Chi vorrà metterla in pratica?
(Davide Tondani)