

L’istituzione carceraria, innovata a partire dal XVIII secolo per sostituire una giustizia fondata sui crudeli supplizi della vendetta pubblica con pene che avessero l’umanità come misura e la rieducazione come orizzonte, appare oggi in profonda crisi. È la realtà quotidiana a dircelo. Le rivolte sono sempre più frequenti in penitenziari fatiscenti in cui si vive e lavora spesso in condizioni degradanti, con tassi di sovraffollamento che raggiungono il 150% in alcune strutture, celle nelle quali talvolta non sono garantiti 3 mq calpestabili per ogni detenuto, con riscaldamento non funzionante e acqua calda e docce assenti. Le inchieste della magistratura per torture e violenze operate dal personale, persino nelle strutture per minori, raccontate nelle cronache di questi mesi restituiscono un ritratto spaventoso della vita carceraria. In un sistema in cui il personale che si occupa della salute, dei problemi sociali e psicologici e della formazione al lavoro dei detenuti è inferiore al 3%, contro una media del 15% degli altri Paesi del Consiglio d’Europa, il tradimento dell’articolo 27 della Costituzione – «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato» – è decretato da suicidi e recidive: nel 2024 sono già stati 67 i suicidi di detenuti e 7 quelli di lavoratori della Penitenziaria, molti di più delle 70 morti del 2023; e tra chi ha scontato la propria pena, quasi il 70% torna a delinquere. Il carcere è oramai da tempo interpretato come la discarica dei problemi che la società non vuole vedere o affrontare: la tossicodipendenza (il 30% delle condanne inflitte è per motivi di droga), l’immigrazione, i problemi psichici vengono confinati dietro le sbarre, dove si consumano drammi che determinano lo sdegno e la richiesta di misure ancor più feroci di parte dell’opinione pubblica.

Anche l’attuale governo si muove su questa linea, ma con in più una dose di populismo securitario. Si continuano ad annunciare più agenti e più carceri mentre con i decreti Rave, Cutro e Caivano si sono istituiti nuovi reati e inasprito pene, rispondendo più alla percezione sociale che alla pericolosità dei crimini commessi. Il pianeta carcere non deve aumentare di dimensioni, deve dimagrire: con le pene alternative, con la rieducazione, con una giustizia riparativa che esca dalle mura dei penitenziari, partendo da un valore ben espresso da don Oreste Benzi: “l’uomo non è il suo errore”. Esperienze incoraggianti, come il progetto “Comunità educante dei carcerati” dell’associazione Papa Giovanni XXIII mostrano che percorsi diversi sono possibili. La sicurezza della collettività cresce all’aumentare delle possibilità di recupero di coloro che hanno sbagliato, non con la logica del recludere e “buttare le chiavi”.
Davide Tondani