
Stando ai più grandi, Dante, Petrarca, Machiavelli, Foscolo, Leopardi, Manzoni hanno fatto nascere l’Italia, a cominciare dalla lingua che è una delle entità fondative del concetto di nazione. Dante, uomo di parte, guelfo ma diviso nella fazione dei Bianchi contro i Neri, nel canto VI delle tre cantiche della Commedia parla specificamente di politica: nel VI dell’Inferno vede Firenze divisa fino allo scontro armato provocato da “superbia, invidia e avarizia”.
L’Italia viene chiamata per nome due volte nel VI del Purgatorio, addolorata come una vedova perché è il “giardino dell’Impero” ma è abbandonata dal suo “sposo”, resa serva, luogo di corruzione, senza pace, ha buone leggi ma disattese, le città sono piene di tiranni, e basta che uno si butti in politica per presumere di essere uno statista. L’Italia e tutto il mondo per Dante saranno in pace se, oltre la veduta corta dell’uomo e della cronaca, si lavorerà per realizzare un ordine universale stabilito da Dio con l’impero, di cui Giustiniano traccia la storia nel VI del Paradiso.

Italia mia invoca Petrarca nella commossa canzone all’Italia, amata e percepita come “creatura” prediletta da Dio, è la più bella parte del mondo. Italia è la “patria” nella più vera definizione contro l’uso strumentale di tanta politica. Patria è la terra che abbiamo toccata per prima noi e i nostri genitori, a essa ci affidiamo. La canzone CXXVIII quasi tutti gli studiosi affermano che fu composta nell’inverno del 1344-1345 quando Petrarca era a Selvapiana nel momento in cui Parma fu venduta a Obizzo d’Este e ne venne guerra contro altri signori: l’Italia ancora una volta riceve piaghe mortali nel suo bel corpo, per lievi motivi si fanno guerre cruente con impiego anche di mercenari che per denaro e con crudele rabbia vengono a “inondar i nostri dolci campi”, le belle contrade.
L’amore per l’Italia si traduce in una invocazione ai signori perché impieghino il tempo brevissimo della vita in atti degni di mano o di ingegno, si rivolge alla canzone stessa perché diffonda un grido che invoca “pace, pace, pace” , bene supremo che le darà sicurezza “fra magnanimi pochi”.
L’invocazione è ripresa da Niccolò Machiavelli negli anni terribili in cui i piccoli signori dei principati per egoismo e veduta corta hanno portato l’Italia sotto il dominio straniero, con conseguenze gravi e non ancora oggi superate.

Tre re francesi (Carlo VIII, Luigi XII, Francesco I cercano di conquistare, di rubare l’Italia, ma alla fine più forte è Carlo V d’Asburgo che nel 1530 viene incoronato re d’Italia e i principi, compreso il papa, diventano suoi cortigiani. Machiavelli è l’ultimo, o piuttosto, l’unico intellettuale che si appella perché si impedisca “Il barbaro dominio” e qualcuno prenda la difesa dell’Italia; chiude il trattato politico Il principe citando versi della canzone all’Italia per esprimere la speranza che virtù contro a furore / prenderà l’arme e la vittoria è possibile perché negli italiani era ancora vivo l’antico loro valore.
Solo Giovanni dalle Bande Nere accolse l’appello ma morì ferito nella guerra di cui complici coi lanzi di Carlo V furono gli Este e i Gonzaga. L’Italia non c’è ma è viva e chiara dentro la poesia del Foscolo, risorgerà prendendo auspicio dai grandi dell’arte e della cultura italiana.
Leopardi in due canzoni porta ad alto effetto la tradizione storica e letteraria dell’Italia e Manzoni nell’Adelchi esorta gli italiani a conquistarsi loro stessi la libertà, non potranno donarla eserciti stranieri se rimarranno un volgo disperso che nome non ha. Una conclusione: i poeti si studiano (si studiavano?) a scuola per il loro altissimo contributo alla nostra formazione come persone e come cittadini.
MLS