Storia Passionale della Guerra Partigiana (Laterza 2023) è l’ultimo libro di Chiara Colombini, che presenta un’Italia alle prese con la Seconda Guerra Mondiale e, in particolar modo, con quelli che, per chi come noi si trovava a nord della Linea Gotica, furono i venti mesi di “Resistenza”. Testimonianze di passioni ed amori, eventi tragici e difficili, che l’autrice sceglie di presentare attraverso il racconto “in diretta”.
Questo consente di trasmettere al lettore un contributo di emozioni reso possibile grazie alle pagine di appunti, diari e corrispondenza letteraria dell’epoca che l’autrice sceglie di approfondire.
Ma il libro offre anche testimonianze di vita quotidiana vissuta in un’epoca “eccezionale” poiché segnata dal vivere dapprima in un paese sottomesso al fascismo quindi nella forza di molte persone che scelgono di emergere e superare le sottomissioni. Il fine dei partigiani non era dunque uccidere ma provare a evitare alle successive generazioni quanto accaduto loro.
Ovviamente, come ha affermato Chiara Colombini, noi siamo figli di un’epoca “lontana” dai fatti narrati. È importante citare che essi sono stati raccolti con fonti coeve che parlano dunque di un “hic et nunc” cioè del presente. Questo permette di far rivivere il “presente” della resistenza e di far meditare sugli stati d’animo che potevano essere propri delle persone che erano in guerra. Un’attenta analisi su sentimenti comuni, come la rabbia o l’entusiasmo, ha offerto all’autrice il metodo per comunicare e permettere di comprendere la dignità del contesto letterario e storico.
Al tempo stesso ha portato a riflettere su quali potessero essere le priorità emerse durante la guerra. Chi ha partecipato alla Resistenza ha dovuto rivestirsi di responsabilità e vivere il tempo che gli si presentava. Un passaggio fondamentale per far comprendere anche noi, ragazzi millenial, l’importanza dei tempi passati, presenti e futuri.
E se in ogni epoca il presente “incalza”, non è possibile certo cancellare il passato. I ragazzi partigiani infatti erano cresciuti durante un processo totalitario che li ha resi oppressi e invogliati nel riscuotere anzitutto in ottica personale le proprie ambizioni di libertà. È allora possibile dire che la Resistenza può essere interpretata in una duplice via: quella personale e quella collettiva.
Per i partigiani non era possibile parlare di un riscatto personale se non nell’ottica di un rinnovamento collettivo. Ma se, come si dice, il passato è noto e il presente si vive, è sul futuro che i ragazzi di allora potevano gettare scommesse di vita. Nonostante questo si prospettava loro un futuro incerto che metaforicamente va ad accomunare le sorti del periodo bellico con quelle attuali.
Allora ci torna in aiuto il testo di Chiara Colombini dove è possibile avere una nuova percezione temporale: comprendere quanto il tempo rivesta sempre un ruolo centrale. Nonostante tutto, per i partigiani, la situazione del “tempo” si rivelava veramente fondamentale perché era proprio quello l’arco temporale in cui dovevano vivere. Pertanto, oltre le ideologie politiche, il sogno di tutti era comune: la pace.
L’autrice pone ancora l’interesse di chi legge non sulle motivazioni della guerra quanto su quello che prova il partigiano, la sua famiglia, i suoi compagni.
È in questo contesto che Chiara Colombini cita Franco Calamandrei, figlio del più famoso Piero, che durante il periodo dei Gap romani descrive nel proprio diario “fatti e sentimenti” di eventi che, seppur non passati alla storia, assumevano per lui un significato importante. Racconta ad esempio di come, mentre si reca ad una riunione in cui si rifletterà del rientro in Italia di Palmiro Togliatti e della successiva “svolta di Salerno”, lui si sente solo e vede come punto di fuga il bisogno di innamorarsi.
Osservare questi aspetti inediti non vuole porsi come essere “spie” postume bensì come la guerra sia stata vissuta da esseri umani che hanno provato le fasi tanto della disperazione quanto della nostalgia e della normalità.
Sempre parlando del Calamandrei è possibile osservare, in un altro passo del libro, persino la sua debolezza e la fragilità che un partigiano poteva avere. Nonostante questo non si sottrae ai propri doveri: impartisce ordini ma non prenderà parte alle azioni. In questa situazione è possibile leggere allora la dimensione della violenza, di uccisioni, degli obiettivi vari…una situazione che permette di comprendere come l’ottica dell’individuo è soggiogata alla ragione delle conquiste del Paese ma anche delle precedenti esitazioni e dei dubbi umani.
Il rischio per chi si trovava sul campo di battaglia non era soltanto uccidere ma anche essere uccisi. Interessante, allora, la corrispondenza epistolare tra Ludovico Ticchioni e la sorella minore Carla. Il fatto che lui si trovi a combattere genera preoccupazioni in chi tiene alla sua esistenza.
“Uccidere e essere uccisi” per chi non era in guerra chiamava in causa la morale ma per chi era partigiano obbligava a cercare una risposta che poteva rivelarsi utile nel momento del bisogno. È così che l’autrice introduce alla tematica delle armi. Esse erano strumenti che, seppur contestualizzavano il fine della guerra, non dovevano portare ad abituarsi alla morte o, ancora peggio, a trovarvi gusto e soddisfazione.
Anche per questo i documenti raccolti offrono un’indicazione di consapevolezza della storicità in cui sono avvenuti i fatti. L’iniziale difficoltà del fare gruppo, l’attitudine di alcuni a non sottostare alle regole – nonostante liberamente avessero scelto la “via” partigiana – il senso del saper “mediare” nei momenti meno felici e di riuscire a ricostruire nei momenti di bisogno.
Tutto questo si comprende nella sfiducia che suscitano alcune testimonianze così come nella gioia dei giorni della liberazione. Una gioia che Chiara Colombini definisce comunque “dolceamara”.
La dolcezza della libertà, il sapore lieto di “esserci riusciti”, la bellezza del rientrare alle proprie case. E la ferma volontà di ripudiare fermamente la guerra. Ma anche qualcosa di amaro: i fatti tragici vissuti, la consapevolezza di dover costruire un mondo nuovo, reprimere le violenze “insurrezionali” che spesso non vorrebbero elogiare il “sangue versato”. Il lento “trascinarsi” del tempo porta così ad accelerare la voglia di insorgere sia come politici sia come militari.
La gioia che si coglieva in un felice aprile del 1945 cede il passo alla consapevolezza che quello che si è vissuto ha avuto un ruolo fondamentale nella vita delle persone. Un ruolo che ad esempio per una ragazza come Maria Antonietta Moro “Anna” – cui nel libro è dedicato un ampio spazio – porta a perdere parte della libertà che aveva conquistata tanto da scrivere “è finita la vita da partigiana”.
Osservando tutto quello che la guerra è stata, si può affermare che “tutto è possibile”. Con questo Chiara Colombini vuole significare che in ogni esperienza è possibile scorgere una pagina bianca nella quale è possibile immaginare, ma soprattutto una pagina da vivere. Urge però anche l’essere consapevoli che, nella stessa pagina, è d’obbligo comprendere il proprio senso di responsabilità.
Quel senso che, tanto per chi ha combattuto in guerra quanto per chi l’ha vissuto in altre dimensioni, diventava l’esplicita offerta a non volgersi indietro e a guardare ciò che andava iniziando. Un tempo, ormai terminato, che è servito ad offrirci l’Italia così com’è ora, a darci la libertà di opinione e il diritto di tutti ad esprimere le proprie idee.
Fabio Venturini