Presentato a Pontremoli il libro di Angela M. Fruzzetti sulle “filandrine”
Il lavoro: indispensabile, anche quale occasione di indipendenza economica ed emancipazione, tanto più preziosa se si è donna; se ne è parlato sabato, 9 marzo, nella sede di Pontremoli dello SPI CGIL che, insieme alla locale sezione dell’ANPI, ha proposto un pomeriggio di riflessione in occasione dell’Otto Marzo, Giornata Internazionale dei Diritti della Donna.
E in tanti hanno risposto all’invito, affollando la sala di via Cavour dove è stato presentato il libro di Angela Maria Fruzzetti “Le Donne della Memoria, la Memoria delle Donne. Racconti, testimonianze e narrazioni delle filatrici del Cotonificio Ligure di Forno”.
Il saluto di Ennio Spinetti (SPI CGIL Lunigiana) ha preceduto l’introduzione al pomeriggio proposta dalla professoressa Caterina Rapetti che, a nome di ANPI, ha ricordato come la Giornata dell’8 Marzo “sia sempre più occasione di riflessione, per ripensare al ruolo della donna in un’epoca nella quale la libertà e i diritti sono rimessi in discussione”.
“Una riflessione – ha continuato – all’interno della quale si colloca la presentazione di questo libro, uno spaccato della vita delle donne nel Novecento. Tanta strada è stata fatta in questo secolo, la vita e la condizione delle donne sono cambiate molto, ma è necessario riflettere sulle conquiste pensando a quanto impegno sia ancora necessario”.
Un libro, quello di Angela Maria Fruzzetti, giornalista, che va oltre la storia dello stabilimento impiantato sul finire dell’Ottocento per la lavorazione del cotone grazie alla forza delle acque del Frigido e che nei primi anni del Novecento vedeva occupati quasi 600 operai, tre quarti dei quali erano donne.
Il paese è un piccolo, grande scrigno della memoria: c’è la filanda dove le balle di cotone arrivavano con la piccola ferrovia, c’è la Casa Socialista nata proprio a seguito dell’impianto produttivo, c’è la testimonianza della strage nazifascista del 13 giugno 1944 quando vennero uccise 68 persone.
Tre simboli sempre presenti nella vita quotidiana di chi abita ancora in quelle case. Il grande complesso industriale oggi è in abbandono: passato al Comune di Massa è una delle opere incompiute del nostro territorio, delle occasioni perse, inagibile e dimenticato, vandalizzato e impoverito, nonostante progetti per farne un punto di riferimento della memoria di ieri e della socialità di oggi.
Una storia che vede al centro le donne, tante: di Forno, dei paesi vicini, ma anche in arrivo da zone più lontane e per le quali la direzione aveva fatto costruire gli alloggi. Lassù, in alto, appena fuori del paese, la fabbrica di notte brillava grazie alla luce elettrica, privilegio assoluto quando ancora Forno era al buio.
“Andare a lavorare alla filanda era molto ambito – ha sottolineato l’autrice – e per decenni l’economia della zone è stata nelle mani delle donne che portavano a casa la busta con quello stipendio che dava indipendenza e permetteva di pensare a progetti come quello di fare studiare i figli”.
Ma l’arrivo del grande stabilimento era stata anche causa di attriti, di diffidenza tra chi lavorava alla filanda e chi ne era escluso. La fine arriva con la Seconda Guerra Mondiale: nel 1942 lo stabilimento è dichiarato inattivo, i macchinari smontati e trasferiti, i locali trasformati in depositi della Marina.
La speranza che possa riaprire svanisce nell’estate 1944 quando le truppe tedesche lo distruggono con bombe incendiare. Il boato degli scoppi fa tremare le case, l’incendio che ne segue è spaventoso e per le operaie è il momento della disperazione, perché in paese, la filanda “è quella che dà il pane: e ora?”.
Gli ultimi mesi di guerra sono i più difficili, e sono ancora le donne a cercare una soluzione. Un pezzo dopo l’altro tolgono dalle casse il prezioso corredo da sposa da barattare con un sacchetto di farina nelle lontane valli emiliane da raggiungere a piedi: è un po’ di vita, presente o futura, che se ne va.
Ma per un lenzuolo ricamato si potevano avere anche dieci chili di farina: per la famiglia faceva la differenza tra vivere e morire di fame.
Paolo Bissoli