Se c’è un autore che ha legato la sua produzione letteraria al mondo dei “matti” (come amava chiamarli lui stesso senza tanti giri di parole) senza dubbio fu lo scrittore viareggino, classe 1910, Mario Tobino.
Una figura singolare che ha saputo conciliare in sé le concezioni apparentemente opposte di scienza e letteratura, di ragione e poesia: lo scrittore psichiatra, fondatore di un nuovo umanesimo. Infatti Tobino ancor prima di essere scrittore, fu medico e direttore nell’ospedale psichiatrico a circa 20 km da Lucca, a Maggiano (che venne traslato nella realtà letteraria nel nome di Magliano), in cui visse e operò per quasi quattro decenni alloggiando in due stanzette che divennero il principale luogo di stesura dei suoi libri.
Il manicomio fu il punto di partenza e anche quello di ritorno, in cui Tobino imparò a conoscere sempre più da vicino i deliri dei pazienti e a trasformare la follia in materia letteraria, ma questa volta allo stato puro.
L’ospedale psichiatrico sarà il protagonista di numerose sue opere, come Le libere donne di Magliano (1953), in cui racconta le vicende delle donne – forti, fragili, eroiche – ricoverate nel manicomio Tobino ha dedicato tutta la sua vita a cercare di comprendere l’umanità dei pazienti che lui amava curare con la particolare attenzione del rispetto e della dignità. I suoi libri migliori germogliano in manicomio, dove egli per vocazione ha vissuto l’ intera vita insieme ai suoi “matti”, per dimostrare che loro sono creature degne d’amore.
Ispirato da una psichiatria umana scrive e lavora per dimostrare che i malati di mente meritano un trattamento dignitoso, vanno trattati, e soprattutto bisogna prestare cura e attenzione per la loro vita spirituale e per la loro libertà.
Per Tobino, non esiste una psichiatria se non nel contesto di una relazione interpersonale. Fiero avversario della legge Basaglia, ha espresso tutta la sua sfiducia verso questa riforma nel libro Gli ultimi giorni di Magliano.
Tobino avrebbe voluto riconvertire i manicomi in strutture dove i cosiddetti “matti” avrebbero potuti essere seguiti da specialisti, da medici e da infermieri ben preparati e qualificati che avrebbero potuto supportarli ogni giorno, senza abbandonarli alle famiglie che spesso non erano e non sono attrezzati ad affrontare dei compiti superiori alle loro stesse capacità.
Questa la seconda parte della vita di Tobino, la prima fase viene segnata dalla partecipazione, durante la seconda guerra mondiale, al conflitto sul fronte libico, dove resterà sino al 1942 quando viene rimpatriato a causa delle ferite riportate durante uno scontro. L’esperienza in Libia lo segnerà profondamente e sarà da lui stesso raccontata nel romanzo Il deserto della Libia pubblicato nel 1952.
Dopo aver combattuto l’“ingiusta guerra africana” Tobino matura una ferma convinzione antifascista e, dal 1943, inizia a partecipare attivamente alla resistenza. Questo sentimento convergerà appieno nel romanzo Il clandestino, con il quale vincerà il premio Strega nel 1962. Muore ad Agrigento, dove si era recato per ritirare il premio Pirandello, l’11 dicembre 1991. Un anno prima aveva pubblicato il suo ultimo romanzo, Il manicomio di Pechino.
(r.s.)