4,2 miliardi di cittadini alle urne per disegnare i nuovi assetti geopolitici mondiali

Mai così tanti stati al voto politico o presidenziale nello stesso anno

Come sta la democrazia elettorale nel mondo? Apparentemente bene, se si guarda al 2024, anno elettorale come non se ne sono mai visti prima. Quest’anno sono chiamati al voto 4,2 miliardi di cittadini in oltre 50 nazioni.
Non sempre votare è sinonimo di democrazia, ce lo insegna The Economist, il settimanale inglese che ogni anno stila una classifica della democrazia nel mondo dalla quale si desume che si vota anche in paesi in cui le elezioni sono spesso irregolari (in totale 34, che rappresentano il 17,2% della popolazione mondiale) o in paesi autoritari, in cui vive oltre un terzo della popolazione mondiale e in cui il voto, oltrechè irregolare, è condizionato dall’assenza o dalla restrizione delle libertà civili che sono il cuore della democrazia.
Gli stati che andranno al voto, o che sono andati al voto già in questo primo scorcio d’anno, appartengono a tutte le categorie, dalle democrazie piene o imperfette alle dittature in cui il voto è nei fatti un pro forma.

Il presidente russo Vladimir Putin

È il caso della Federazione Russa, nella quale il voto presidenziale è previsto per il 15-17 marzo, con eventuale ballottaggio il 7 aprile, ma del quale siamo tutti sicuri di conoscere il vincitore: Vladimir Putin, al suo ventiquattresimo anno alla guida del suo paese, contando anche un mandato da primo ministro (2008-2012) quando la Costituzione gli impediva ancora una terza ricandidatura.

Il primo ministro indiano Narendra Modi (foto da Wikipedia)

Non sarà un pro forma invece il voto in India, dove Narendra Modi, in carica dal 2014, correrà per un terzo mandato, forte dell’ascesa economica e demografica del suo paese, che dal 2023 ha superato la Cina come paese più popoloso del Pianeta. Sebbene i principali mass media italiani pongano poca attenzione alle vicende del subcontinente indiano, Modi è noto per il suo nazionalismo religioso.
La recente inaugurazione di un tempio intitolato al dio Rama, nello stato dell’Uttar Pradesh (India settentrionale) è stato l’inizio della sua campagna elettorale. Il sontuoso tempio, sorto sulle rovine di una moschea di epoca Moghul, distrutta nel 1992 da una folla inferocita di 150 mila fondamentalisti indù, è stato definito da Modi “il simbolo della coscienza nazionale” e lui stesso ha presieduto come un sacerdote la consacrazione del luogo di culto.
Per molti osservatori è la fine dell’India formalmente laica teorizzata da Ghandi, il cui mito di padre fondatore viene progressivamente destrutturato dalla propaganda nazionalista.

Il presidente degli Usa, Joe Biden

Le cose non vanno meglio in quello che viene considerato il paese leader delle democrazie liberali e dell’ordine politico occidentale: gli Stati Uniti. Che il partito dei padri fondatori, quello repubblicano, nel nuovo secolo si sia progressivamente trasformato da custode dei valori tradizionali americani – anche quelli meno apprezzabili – a ricettacolo delle istanze più reazionarie, contrassegnate anche da un violento suprematismo bianco e un populismo antisistema, è sotto gli occhi di tutti.
Il fatto che Trump ottenga favori plebiscitari in tutte le primarie nonostante le sue responsabilità rispetto all’assalto di Capital Hill del 2021, dice molto sul deterioramento della qualità della democrazia statunitense. C’è un antidoto a questa deriva? Difficile trovarla in casa democratica, dove l’alternativa partorita per fermare la corsa dell’ex uomo di affari è quella di Joe Biden, un presidente impopolare nonostante le sue politiche pubbliche e i buoni dati economici conseguiti dalla sua amministrazione. Soprattutto, un presidente da molti sospettato di non avere più energie e lucidità per sostenere altri quattro anni alla Casa Bianca.
Ma accanto alle presidenziali in tre grandi stati chiave del mondo, ci sono altre consultazioni che potrebbero essere determinanti per capire i futuri equilibri internazionali. Si voterà per esempio in Georgia e in Moldavia, dove forte è la polarizzazione tra istanze filorusse (l’interferenza del regime putiniano appare alta in entrambi i paesi) e filoeuropee.
Si voterà in Sudafrica, uno dei Brics che ambiscono a costruire un nuovo ordine mondiale multipolare; in Indonesia, il paese islamico più grande del mondo.

L’aula del Parlamento Europeo: la composizione sarà rinnovata con il voto di giugno

E a proposito di islam, va alle urne l’Iran, una dittatura che non rinuncia ad un voto tra riformisti e conservatori fedeli al regime degli ayatollah.
E ancora, si voterà in Messico, in Venezuela e in Uruguay, mentre si è già votato nell’importante snodo geopolitco di Taiwan. Si voterà nella Tunisia culla della primavera araba tradita, mentre in Senegal il voto presidenziale è stato rimandato, a certificare lo stato di profonda sofferenza democratica di un’Africa Occidentale martoriata dai colpi di stato.
Questa serie (incompleta) di consultazioni elettorali potrebbe dare indicazioni importanti sui futuri equilibri mondiali. Nell’incertezza del quadro che andrà a delinearsi, una cosa appare certa: non saranno le quasi sicure elezioni politiche anticipate della Gran Bretagna e nemmeno il rinnovo del Parlamento Europeo l’8-9 giugno a spostare più di tanto gli equilibri mondiali: anche questo è un segnale del cambiamento d’epoca in atto.

(Davide Tondani)