Il giorno che a Nikolaevka si decise la sorte di migliaia di soldati italiani

Il 26 gennaio 1943 venne combattuta la battaglia che valse la salvezza. I resti dell’Armir ruppero l’accerchiamento

I resti dell’Armir in ritirata verso ovest (da Wikipedia)

Ottant’anni fa, il 26 gennaio 1943, a Nikolaevka, quel che restava dell’Armata Italiana in Russia, trovò la forza e la capacità di rompere la morsa nella quale la stringevano le divisioni sovietiche e potè così avviarsi verso la salvezza. Oggi Nikolaevka (o Nikolajewka, secondo la forma tedesca a noi più nota) è un piccolo centro nella regione di Belgorod, la città russa a pochi chilometri dal confine con l’Ucraina, oggi più volte oggetto di bombardamenti da parte dell’artiglieria ucraina in quella folle guerra che si sta combattendo nel cuore dell’Europa ormai da undici mesi.

Nell’aprile 1942 il Corpo di Spedizione Italiano in Russia (CSIR) venne trasformato in ARMIR: Hitler aveva necessità di più uomini e mezzi per il fronte orientale e Mussolini obbedì. Dall’Italia arrivarono altri due corpi d’armata ad affiancare le tre divisioni già presenti in terra sovietica dall’estate del 1941. Il numero dei militari italiani impegnai sul fronte russo salì così a circa 230mila. Tra i reparti schierati anche il 4° Corpo d’Armata Alpino, con le Divisioni “Tridentina”, “Julia” e “Cuneense”.
Alla metà di dicembre del 1942 l’esercito sovietico scatenò la seconda battaglia difensiva del Don. Tra ripiegamenti e riorganizzazioni le truppe di invasione resistettero per un mese, ma tra il 12 e il 17 gennaio nulla poterono contro l’offensiva sovietica supportata da un gran numero di mezzi corazzati. L’ultima resistenza venne affidata ai reparti italiani che poterono per ultimi iniziare la ritirata verso ovest, sempre inseguiti dall’Armata Rossa.
Furono gli alpini del gen. Luigi Reverberi a sfondare l’accerchiamento a Nikolaevka, in quella che fu la battaglia per la vita. Nei giorni successivi i resti dell’Armir arrivarono in Bielorussia; il 31 gennaio il comando venne disattivato e i superstiti rimpatriati. In quella marcia, nel durissimo inverno russo, senza viveri e con scarso equipaggiamento morirono altre migliaia di militari italiani portando il bilancio dei caduti e dei dispersi in poco più di un mese di combattimenti alla cifra di 85mila a cui si devono aggiungere circa 30mila tra feriti o congelati.       (Paolo Bissoli)
 

L’attesa inconsolabile di un papà disperso

Soldati italiani dell’ottava armata nel giugno 1942 (da Wikipedia)

“Che mestiere fa tuo papa?”. La domanda che il professore fa a tutti gli alunni della classe arriva anche a me, figlio di un alpino partito per la Russia subito dopo la mia nascita e non tornato dalla guerra. “Non so” rispondo, “mio papà non c’è”. “Come non c’è?” riprende burbero il professore. “Non è ancora tornato dalla guerra”. “Allora è morto?” “No”. Spazientito, il professore quasi grida: “Allora devi dire che è disperso!”. In casa non avevo mai sentito pronunciare quella parola e non sapevo cosa volesse dire e quando chiedevo alla mamma dov’era papà, con delicatezza mi ripeteva sempre “vedrai che ritorna”. Tutto ruotava attorno a questa attesa, anche perché tutti i ragazzi del paese avevano un papà e solo io non potevo farmi forza della figura paterna. E così inizia la drammatica attesa del ritorno nelle famiglie di giovani, anche padri, partiti per la guerra, specialmente nella lontana Russia.

Reparti italiani durante la ritirata dal fronte del Don (da Wikipedia)

Alcuni che ce l’hanno fatta: smunti, laceri, smagriti nella tragica ritirata; rientrati alle loro case, sono subito circondati dai famigliari degli altri per avere notizie di loro cari non tornati, ma senza avere risposta. Dalle autorità non arrivano comunicati e dopo anni di prigionia comincia a tornare a casa qualche reduce, anche questo subito subissato da domande purtroppo senza risposte. Dopo un certo tempo arriva la comunicazione ufficiale alla mamma: nella tragica ritirata di Nikolajewka suo marito risulta disperso il 31 gennaio 1943.
Quella parola comincia a martellarmi nel cervello e così comincio a prendere coscienza del suo significato: non è morto, non si trova il suo corpo, non si sa dove sia. Allora potrebbe tornare. Ma passava il tempo e papà non tornava; anzi, quando avevo appena 12 anni anche la mamma se ne è andata. Lei per sempre, sepolta nella nera terra del piccolo cimitero del paese di Malgrate, ma per mio padre rimaneva quel tenue filo di speranza, alimentata dalla parola “disperso” che, man mano, crescendo in età, assumeva significati sempre diversi. E così comincia la lunga attesa di un ritorno, andando a caccia di notizie dai pochi reduci della zona.
Mi dice Gino: “Sì, l’ho incontrato prima della ritirata; io facevo l’autista e portavo il rancio anche al fronte, sulla linea del Don, e nella ristrettezza del cibo alla sua batteria ne davo un poco di più. Quando al comando sono cominciate a circolare notizie sulla ritirata, gli dicevo di smettere di esercitarsi con la tromba e imparare a guidare il camion, che presto avremmo affrontato la ritirata”. Poi la disfatta e più nulla.
Altro reduce, Pierino, mi racconta: “Con un altro paesano l’abbiamo affiancato al termine della tragica ritirata nella battaglia finale di Nikolajewka; guidava un mulo che trainava la slitta con sopra un tenente e un alpino gravemente feriti. ‘Dai, gli abbiamo detto, vieni con noi che ormai siamo salvi’, ma lui, deciso, ci ha risposto che non voleva abbandonare i feriti ad una morte sicura, e così l’abbiamo salutato. Dopo due anni di prigionia, noi siamo tornati a casa”.
Però, un filo sottilissimo ma tenace resisteva; tanto che, dopo molti anni, nell’inconscio più profondo, a dispetto dell’evidenza e della realtà e contro ogni speranza, non si era ancora definitivamente spezzato e, nel 2012, mi ha spinto a calcare, pregando, a piedi insieme ad altri alpini, per 200 chilometri dal Don a Nikolajewka, quella terra dei girasoli, percorsa da miglia di disperati in cerca della salvezza, moltissimi dei quali morti e sepolti dai contadini, al disgelo, dove si trovavano. Ogni libro che parlava e ancora oggi parla della ritirata di Russia l’ho acquistato e letto e quella parola – disperso – continua in modo incredibile a martellarmi nel cervello e soprattutto nel cuore.

Edamo Barbieri