La sua festa è tra le più sentite, soprattutto nelle campagne. Il dono del fuoco e la protezione degli animali
Sant’Antonio Abate raffigurato in un affresco quattrocentesco nella chiesa parrocchiale di Aiola, nel territorio di Fivizzano
La festa di Sant’Antonio Abate è tra quelle più sentite dalla devozione popolare, soprattutto nelle realtà rurali. Vissuto tra il III ed il IV secolo, rimase orfano e fece suoi i precetti evangelici, distribuendo tutti i suoi beni ai poveri. Si ritirò allora nel deserto della Tebaide in Egitto, dove intraprese la vita ascetica. Si adoperò pure per fortificare la Chiesa, sostenendo i confessori della fede durante la persecuzione dell’imperatore Diocleziano, ed appoggiò sant’Atanasio nella lotta contro gli ariani.
Tanti furono i suoi discepoli da essere chiamato padre dei monaci. Questi tramandarono ai posteri la sua sapienza, raccolta in 120 detti ed in 20 lettere. Nella Lettera 8 Sant’Antonio scrisse ai suoi: “Chiedete con cuore sincero quel grande Spirito di fuoco che io stesso ho ricevuto, ed esso vi sarà dato”. Nel 561 fu scoperto il suo sepolcro e le reliquie cominciarono un lungo viaggio, da Alessandria a Costantinopoli, sino ad arrivare in Francia, nell’XI secolo, a Motte-Saint-Didier, dove fu costruita una chiesa in suo onore. Qui affluirono a venerarne le reliquie folle di malati, soprattutto affetti da ergotismo canceroso, causato dall’avvelenamento di un fungo presente nella segale, usata per fare il pane.
Questo morbo, oggi scientificamente noto come herpes zoster, sin dall’antichità era conosciuto come ignis sacer (fuoco sacro) per il bruciore che provocava. Per ospitare tutti gli ammalati che giungevano, si costruì un ospedale e venne fondata una confraternita di religiosi, l’antico ordine ospedaliero degli Antoniani. Il villaggio prese il nome di Saint-Antoine de Viennois. Oggi tale comune si chiama Saint-Antoine-l’Abbaye e una parte dell’abbazia è casa d’accoglienza e sede di una Comunità dell’Arca di Lanza del Vasto.
Il Papa accordò agli Antoniani il privilegio di allevare maiali per uso proprio e a spese della comunità, per cui i porcellini potevano circolare liberamente fra cortili e strade; nessuno li toccava se portavano una campanella di riconoscimento. Il grasso dei maiali veniva usato per curare l’ergotismo, che venne chiamato “il male di Sant’Antonio” e poi “fuoco di Sant’Antonio”. Per questo motivo, nella religiosità popolare, il maiale cominciò ad essere associato al grande eremita egiziano, poi considerato il santo patrono dei maiali e per estensione di tutti gli animali domestici e della stalla. Venne poi allora invocato contro le malattie della pelle in genere. Nella classica iconografia del santo compare, oltre al maialino con la campanella, anche il bastone degli eremiti a forma di T, la “tau” ultima lettera dell’alfabeto ebraico, allusione quindi escatologica.
Una leggenda popolare, che collega i suoi attributi iconografici, narra che Sant’Antonio si recò all’inferno per contendere al diavolo l’anima di alcuni defunti. Mentre il suo maialino, sgattaiolato dentro, creava scompiglio fra i demoni, lui accese col fuoco infernale il suo bastone a forma di “tau” e lo portò fuori insieme al maialino recuperato: donò il fuoco all’umanità, accendendo una catasta di legna.
Nel giorno della sua memoria liturgica, il 17 gennaio, si benedicono le stalle e si portano a benedire gli animali domestici. In alcuni paesi di origine celtica, Sant’Antonio avocò idealmente a sé alcune prerogative della divinità della rinascita e della luce, Lug, il garante di nuova vita, al quale erano consacrati cinghiali e maiali. Per tale motivo in varie opere d’arte ai suoi piedi è posto un cinghiale. Patrono di tutti gli addetti alla lavorazione del maiale, vivo o macellato, lo è anche di quanti lavorano con il fuoco, come i pompieri, poiché guariva da quel fuoco metaforico che era l’herpes zoster.
Ancora oggi in occasione della sua festa, specie nei paesi agricoli e nelle cascine, si usa accendere i cosiddetti “focarazzi” o “ceppi” o “falò di sant’Antonio”, che avevano una funzione purificatrice e fecondatrice, come tutti i fuochi che segnavano il passaggio dall’inverno all’imminente primavera. Le ceneri, poi raccolte nei bracieri casalinghi di una volta, servivano a riscaldare la casa e, tramite un’apposita campana fatta con listelli di legno, per asciugare i panni umidi. Sant’Antonio di Padova, proprio per indicare il suo desiderio di maggior perfezione, divenendo frate minore scelse di cambiare il nome di Battesimo con quello del grande Antonio.
Un antico oratorio ad Albiano Magra
L’oratorio di Sant’Antonio Abate ad Albiano Magra
In Lunigiana solamente due Oratori sono dedicati alla memoria di Sant’Antonio Abate, entrambi nel comune di Aulla: uno alla Vaccareccia e l’altro nel borgo di Albiano Magra. Quest’ultimo risulta di maggior pregio artistico ed ancora abitualmente frequentato. L’ottimo restauro, curato nel 2005 dagli architetti e parrocchiani Roberto Ghelfi e Daniela Scarponi, ha fatto sì che l’Oratorio, la cui presenza era gia attestata nel 1584, possa ancora essere un polo attrattivo sia spirituale che turistico. La facciata dell’edificio è semplice, ma quanto si scopre varcando la soglia d’ingresso è meraviglioso. Questo luogo di arte e di preghiera è stato valorizzato negli ultimi anni con la celebrazione della Santa Messa ogni sabato mattina alle ore 9. Svariate altre celebrazioni avranno luogo prossimamente nell’Oratorio albianese: martedì 17 gennaio alle 21 in occasione della festa patronale, lunedì 30 gennaio alle 17.30 per la festa di San Giovanni Bosco, martedì 31 gennaio alle 21 nel trigesimo della morte di Benedetto XVI e venerdì 3 febbraio alle 21 festa di San Biagio, con la benedizione della gola.