Manovra 2023: tanti provvedimenti a favore delle varie anime della maggioranza, ma nessuna visione su come affrontare le sfide economiche del prossimo anno
La pacchia è finita, verrebbe da dire: per Giorgia Meloni il governo rappresenta il ritorno al realismo dopo gli anni facili dell’opposizione urlata contro tutto e tutti, reso ancor più celere dalle elezioni autunnali, che hanno imposto alla nuova (o al nuovo, come preferisce la diretta interessata) Presidente del Consiglio di cominciare il proprio mandato non con la consueta “luna di miele” estiva successiva alla vittoria elettorale, ma con il difficile esercizio della scrittura della legge di bilancio, un provvedimento che nemmeno in tempi più rosei di quelli attuali faceva salire la popolarità del governo.
La distanza tra la destra di opposizione e la destra di governo si misura in queste settimane nei numeri della manovra di bilancio: al 21 novembre il Documento Programmatico di Bilancio (Dpb) che anticipa la manovra vera e propria è composto di 20,2 miliardi di euro di nuovo debito pubblico e di 16,1 miliardi di euro di minori spese/maggiori entrate nel 2023. Il deficit di 20,2 miliardi non solo è ben lontano dai 30 miliardi promessi da Salvini in campagna elettorale, ma addirittura è leggermente inferiore ai 21 miliardi stabiliti nell’ultimo aggiornamento del Documento di Economia e Finanza licenziato da Draghi pochi giorni prima di lasciare. Come dire: quella di Bruxelles è una tecnocrazia da abbattere fin che si sta all’opposizione, ma con cui occorre ragionare quando si è al governo.
Da dove provengono i 16,1 miliardi di minori spese/maggiori entrate non è ancora del tutto chiaro. Per ora tra le coperture “certe” vi sono risparmi per 2,9 miliardi relativi all’indicizzazione delle pensioni, ai tagli al Reddito di cittadinanza, alle minori detrazioni fiscali per ristrutturazioni edilizie.
E i 13,2 miliardi mancanti? Per ora sono genericamente imputati a “altre entrate/altre spese”. Probabilmente in questa voce rientrerà il maggior gettito dell’imposta sugli extra profitti, ma quali saranno i tagli?
La presentazione del testo definitivo alle Camere della Legge di Bilancio chiarirà dove il governo andrà a risparmiare. I ragionamenti contabili indicano dunque che il tempo della propaganda è finito – ma lo si era già capito quando Meloni indicò come Ministro dell’Economia Giorgetti, il leghista fedelissimo di Mario Draghi. Ma ad emergere è anche una strategia politica inesistente: tutte le previsioni macroeconomiche, da quelle del governo italiano a quelle delle maggiori istituzioni finanziarie internazionali concordano che il 2023 sarà un anno di stagnazione economica e di inflazione (la “stagflazione” che dopo 50 anni torna a manifestarsi), di disoccupazione in crescita e di grandissime incertezze sullo scenario energetico in balia della speculazione finanziaria e su quello geopolitico.
Ebbene, in questo quadro a tinte fosche la manovra annunciata da Meloni non indica alcuna strategia per affrontare la tempesta che potrebbe abbattersi su un Paese già estremamente indebitato, con un sistema produttivo le cui fragilità di fondo sono note da un paio di decenni e con un contesto sociale caratterizzato da 5,6 milioni di poveri assoluti e il 12% di occupati con salari di povertà.
La legge di bilancio, al contrario, evidenzia una lunga serie di provvedimenti slegati tra di loro, tesi solo a pagare le tante cambiali firmate in campagna elettorale: 45 euro in più alle pensioni minime, per ottemperare alla promessa di aumenti fatta da Berlusconi; il pensionamento con almeno 41 anni di contributi e 62 anni di età, per un totale di 103 anni (“quota 103”) promesso dalla Lega nonostante i modestissimi risultati di perequazione del sistema previdenziali conseguiti nei tre anni di “quota 100”; le restrizioni al Reddito di cittadinanza, un’umiliazione nei confronti di persone fragili e difficilmente rioccupabili, giusto per vendetta ideologica nei confronti di Giuseppe Conte e per strizzare l’occhio alle future stampelle del governo, cioè Italia Viva e Calenda; l’aumento del tetto all’uso del contante e la riduzione della somma al di sotto della quale rifiutare i pagamenti con il pos, per lanciare evidenti segnali di accondiscendenza agli evasori fiscali. E ancora, l’aumento fino a 85 mila euro della soglia di ricavi che consente a liberi professionisti e imprese individuali di sostituire Irpef e altre imposte con un prelievo del 15%: uno schiaffo al lavoro dipendente che sorride a quella storica parte di base elettorale della destra italiana che ha sempre visto lo Stato come un nemico o come una mucca da mungere.
Certo, ci saranno ben 21 miliardi contro i rincari dell’energia (taglio delle accise sui carburanti, che però si ridurrà a 18,3 centesimi al litro dai 30,5 attuali, bonus sociale sulle bollette per le famiglie con redditi bassi e crediti di imposta per le imprese), ma senza avere ancora abbozzato una nuova idea di approvvigionamento energetico; e ci sarà pure il taglio del cuneo fiscale per rendere più cospicue le buste paga di chi guadagna meno di 35 mila euro all’anno, un modo per alzare gli stipendi a spese di minori servizi pubblici e di pensioni più piccole domani, e che non obbliga le associazioni datoriali ad aumentare contrattualmente i salari.
Manca dunque una visione d’insieme del futuro fosco che ci attende e dei modi in cui poterlo affrontare attutendone gli effetti. Chi si aspettava qualcosa di diverso forse dimentica che 12 ministri su 24, più la stessa Meloni, avevano incarichi di governo nel dicastero Berlusconi IV, quello che finì con lo spread a 600 e l’arrivo dei tecnici.
(Davide Tondani)