New Deal, quel “nuovo corso” che indirizzò l’economia e la politica  del secondo dopoguerra

Ottant’anni fa, con l’elezione di Roosvelt alla Casa Bianca, il varo del “piano”, precursore delle politiche economiche della seconda metà del Novecento

Il presidente degli Stati Uniti, Roosevelt, mentre firma uno dei provvedimenti del New Deal

Uno Stato “motore” della ripresa dopo la Grande depressione del 1929 e che giudica le disuguaglianze come un ostacolo alla prosperità della nazione: fu questo, in sintesi, il New Deal, il “nuovo corso” che Franklin Delano Roosevelt propose ai cittadini americani e che gli valse, nel novembre del 1932, la conquista della Casa Bianca.
Gli Stati Uniti avevano sperimentato a partire dal 1929 una crisi economica e sociale di proporzioni immense. Una speculazione finanziaria senza limiti, unita ad un boom economico costruito però sui piedi d’argilla di forti disuguaglianze nella distribuzione del reddito e di aspettative di una crescita senza limiti, portarono nell’ottobre del 1929 al crollo dei corsi azionari alla Borsa di New York e alla rapida propagazione degli effetti del crack all’economia reale. I fallimenti ed i licenziamenti portarono alla crisi dei consumi contribuendo ad alimentare un circolo vizioso che condusse l’economia statunitense in una fase di arresto a cui il presidente repubblicano Herbert Hoover non seppe dare risposte efficaci: nel 1932 gli Stati Uniti contavano 12,5 milioni di disoccupati, una produzione industriale dimezzata e il fallimento di 5 mila banche.
Roosevelt puntava a rompere la spirale recessiva individuando nella domanda (e non nella produzione, come sosteneva da 150 anni la dottrina economica classica) il fulcro del sistema economico. Di conseguenza, era necessario stimolare i consumi. In che modo? Con una politica fino ad allora giudicata eretica: accentuare l’intervento dello Stato nell’economia per accrescere la domanda interna, con un forte aumento della spesa pubblica, ricorrendo anche al deficit di bilancio e all’aumento dell’offerta di moneta.

John Maynard Keynes con la moglie Lidija nel 1920

Nell’applicare queste politiche economiche i consiglieri di Roosevelt si ispirarono alle teorie elaborate dall’economista britannico John Maynard Keynes, che sistematizzerà le sue tesi nel 1937 nella celebre “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”. In quattro anni l’amministrazione americana mise in campo un vasto piano di lavori pubblici per riassorbire la disoccupazione, istituì un sistema di assicurazioni sociali a vantaggio delle classi lavoratrici e aumentò della tassazione sui ceti abbienti. Fu introdotta la separazione tra banche d’affari e banche commerciali e fu abbandonata la parità aurea, con la svalutazione del dollaro nella misura del 40% per ridurre il peso dell’indebitamento e facilitare le esportazioni. Molti programmi ebbero un grande successo, non tutti però diedero i risultati sperati; ancora tra il 1937 e il 1938 una nuova crisi economica portò i disoccupati da 7,5 a 10 milioni e fu solo con il riarmo in vista della Seconda guerra mondiale che si ebbe una ripresa duratura.
Per gli economisti della “scuola austriaca”, una corrente ultraliberista della scienza economica, era la dimostrazione che l’intervento dello Stato nelle dinamiche di mercato attraverso la politica fiscale e l’espansione monetaria, come prefigurato dal New Deal e da Keynes, portava a risultati fallimentari. Fermarsi ai successi e agli insuccessi dei programmi di Roosvelt impedisce tuttavia di comprendere il significato più profondo di quell’esperienza, sia a livello economico che politico.
Il New Deal di fatto fu il “laboratorio” delle politiche economiche che contraddistingueranno i “trent’anni gloriosi”, il periodo di forte crescita economica e di aumento del tenore di vita sperimentato dalla maggioranza dei paesi sviluppati tra il 1945 e il 1975; ma fu anche, in chiave politica, il punto di approdo delle istanze socialiste all’interno di un sistema economico capitalista, facendo delle socialdemocrazie europee un punto di riferimento alternativo all’economia pianificata e al sistema collettivista del blocco sovietico. La crisi petrolifera e la globalizzazione misero in crisi quel modello economico che ancora oggi suscita molte nostalgie ma che non è più replicabile nel nuovo scenario economico.
Le politiche keynesiane erano tarate su economie nazionali solo debolmente aperte all’esterno, mentre la globalizzazione ha esposto i singoli Stati ad una concorrenza che non offre più ampi spazi di manovra per la spesa pubblica, la tassazione, le politiche salariali; la rivoluzione tecnologica, consentendo alle imprese di disfarsi di quote sempre più consistenti di forza lavoro e di delocalizzarsi, parcellizzarsi o generare economie di scala in maniera sempre più agevole, ha reso impossibile la realizzazione di un modello di piena occupazione in cui redistribuire ai salari nuove quote di ricchezza che, al contrario, vanno a remunerare sempre di più il capitale.
Le politiche keynesiane inaugurate da Roosvelt 80 anni fa sono dunque consegnate alla storia del Novecento e alla memoria di chi ha vissuto quegli anni. Ma ciò non impedisce, anzi: esige!, l’elaborazione di un New Deal del XXI secolo teso a garantire prosperità economica, giustizia distributiva ma anche, nel contesto del nostro tempo, pace e salvaguardia ambientale.

(Davide Tondani)