Risulta difficile trarre un messaggio chiaro dai risultati del voto nelle elezioni amministrative di domenica e lunedì scorso. Eppure il test elettorale era dei più significativi: al voto le 4 più grandi città italiane (Roma, Milano, Napoli e Torino), altri due capoluoghi di regione (Bologna e Trieste), la Calabria.
Nella stagione del bipolarismo sarebbe stato facile decretare vincitori e sconfitti e i possibili effetti sul governo in carica, o le proiezioni sulle elezioni politiche successive. Non nell’attuale fase politica, però: il Parlamento ha una configurazione tripolare e ha già dato la fiducia a tre governi retti da altrettante formule politiche; confini e connotati delle coalizioni presentatesi nel 2018 si sono modificati; lo snodo dell’elezione del Presidente della Repubblica, tra 3 mesi, potrebbe anche sfociare, all’indomani dell’insediamento del Capo dello Stato, nella fine anticipata della Legislatura.
In un quadro così complesso certamente il centrodestra perde in città importanti come Milano, Napoli e Bologna, insegue a Torino e non riesce a vincere al primo turno a Trieste. La Lega quasi ovunque ha visto ridursi, anche di molto in alcune realtà, i propri voti, subendo il sorpasso di Fratelli d’Italia, che tuttavia non sfonda, se non a Roma. I solchi tra i partiti aumentano: Salvini giura fedeltà a Draghi, avendo ben poca voglia di affrontare un voto politico anticipato, mentre Meloni dice l’esatto opposto.
Ma questo non significa che il centrosinistra possa avvantaggiarsene: l’unione tra democratici e grillini, condizione necessaria per battere la destra, non solo continua ad essere ostacolata da correnti di entrambi i partiti, tutti e due in palese difficoltà nella ricostruzione di una chiara identità politica, ma deve fare i conti con i voti. I 5 Stelle hanno perso Roma e Torino e, non da oggi, scompaiono in molti territori, aspetto non molto incoraggiante in vista di un’eventuale sfida elettorale nazionale.
In questo quadro un solo dato emerge chiaro: la disaffezione degli italiani nei confronti del voto. Il 3 e 4 ottobre si sono recati alle urne il 54,7% degli aventi diritto, il 7% in meno di cinque anni fa, con percentuali localmente ancor più basse. Tanti fattori determinano l’aumento della diserzione dalle urne. Nell’attuale fase pesa indubbiamente la presenza in carica di un governo che vede partiti in teoria contrapposti sostenere gli stessi provvedimenti messi in campo dal premier “tecnico”.
Ma allargando l’orizzonte temporale, sembra farsi largo un voto “liquido” che, abbandonate le appartenenze, premia e abbatte in breve tempo leader o movimenti politici, si sposta deluso alla ricerca di nuove prospettive, arrivando fino ad evaporare nel non voto, denunciando così una preoccupante indifferenza per qualsiasi ipotesi di rappresentanza.
Davide Tondani